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Giancarlo Natale

Di là da’ monti

Storie e leggende di Biassa e Tramonti


 

Prologo

 


A Biassa sino agli inizi degli anni cinquanta le antiche storie venivano tramandate oralmente dai più anziani nelle lunghe serate invernali intorno ai focolari delle povere case.

Ormai sono rimasti pochi coloro che custodiscono i racconti della loro infanzia e ancor meno sono i giovani disposti ad ascoltare: le biciclette, i motorini, la radio, la televisione sostituiscono i racconti che un tempo facevano galoppare la fantasia dei loro coetanei.

Taluni dei racconti qui raccolti provengono dalla notte del tempo, tramandati per generazioni: sono le favole, le canzoni, le ninne nanne e la saggezza contadina insita nei detti e nei proverbi. Altri sono racconti di avvenimenti vissuti dagli anziani da me interpellati o almeno accaduti in tempi tanto vicini a loro che i racconti dei padri non erano ancora ammantati da quella aura di leggenda che assumono le vicende lontane.

I toponimi dovevano essere molto più numerosi di quelli elencati; alcuni sono caduti in oblio, altri non sono più esistenti, specialmente a Tramonti, dove la morfologia del terreno in questi ultimi decenni si è profondamente modificata.

Anche le tradizioni e il folclore dovevano essere ricche a Biassa perché oltre al materiale raccolto, numerosi sono i frammenti di memorie di cui gli anziani si sono sforzati, su mia richiesta, di trovare la continuazione, anche se spesso la risposta era “non ricordo più”.

Ho raccolto tutto questo materiale per un uso dapprima esclusivamente personale: volevo consegnarlo ai miei figli affinché non dimenticassero il nostro passato, o almeno una parte del nostro passato. Il progresso avanza a passi giganteschi, le nostre attività quotidiane non ci permettono, con la loro premura, di pensare a cose trascorse: non portano alcun beneficio materiale, allora lasciamo perdere....

Eppure il passato è appena dietro la porta che abbiamo chiuso alle nostre spalle.

Gli anziani che ho interpellato dalla classe 1912 in avanti, sono con noi, vivono il progresso di ogni giorno... e hanno vissuto il passato; il loro passato, gli anni della loro gioventù sino all’avvento (anche se è avvilente dirlo) della seconda guerra che ha portato insieme ai suoi lutti il progresso. La loro vita non era troppo dissimile dalla vita dei loro padri e dai padri dei loro padri: Tramonti e Biassa, un dualismo senza interruzioni, da secoli. E oggi che assistono al cambiamento della loro vita e a quella dei loro figli, quando ricordano quei tempi il loro viso si illumina e quando parlano dei campi abbandonati e delle frane, il viso si incupisce e fremono di sdegno per questi giovanotti “ che non hanno più voglia di lavorare”.

Li ringrazio, questi anziani di Biassa, perché mi hanno comunicato le sensazioni e i profumi dei tempi andati, tempi che è auspicabile non tornino più, ma che ci auguriamo non siano dimenticati.

I ricordi scritti lasciati da Pietro Natale, detto Natalin (1875 - 1966), guardaboschi delle proprietà comunali intorno a Biassa e organista della chiesa di San Martino per sessanta lunghi anni, assieme alla ancor invidiabile memoria dell’Arfù da Ciaeta (Alfonso Sommovigo), ’a Luce de l’Arnè de Barbeta (Luciana Natale), ’a Maia da Rìciula (Maria Scaglione), ’u Durfu de Mucini (Adolfo Gianardi), ’r Brunu der Pendignolu (Bruno Sommovigo), ’a Ada de l’Arcida (Ada Natale), Abèle de Pudenzana (Lombardi Domenico), hanno permesso con i loro ricordi di fare rivivere pagine di un tempo che non c’è più.

Un ringraziamento all’amico Gennaro Rossi per avere portato sul filo grammaticale le mie sgrammaticature.

Per le pagine sul folclore biasseo è stato essenziale l’aiuto di Ideale Gianardi, autore di un prezioso dizionario sul dialetto di Biassa che non è purtroppo ancora stato pubblicato, ma che sarebbe un valido aiuto per capire la formazione della parlata spezzina, nata probabilmente da quella di Biassa. I modi di dire ed i proverbi qui raccolti provengono, in maggior parte, da questo suo lavoro.

Il tutto è stato rielaborato e compattato dalle abili mani di un’esperta: la professoressa Rossana Piccioli, curatrice del Museo Civico “U. Formentini” della Spezia.

E poi, parte delle fotografie del testo e le ricerche fotografiche di un fotografo d’eccezione quale Sergio Fregoso.

Tutti grossi personaggi meno uno: io.

 

La strada mulattiera che da Biassa porta a Tramonti, inizia subito dopo le ultime case in località Curezöu (Correggiolo).

Una gradinata tutta in arenaria (che sul finire del 1880 sostituì un più antico e malagevole sentiero) capolavoro degli antichi cantonieri e scalpellini di Biassa, porta al passo (520 m.) di monte Madonna. Sulla sommità, immediatamente a fianco della mulattiera è stata costruita una chiesetta dedicata a s. Antonio abate.

Questo primo tratto di strada pedonale, comune alle tre località di Tramonti di Biassa (Fossola, Monesteroli, Schiara), è lungo circa tre chilometri ed è intercalato da “pose” che servivano per “posare” il carico che le donne portavano sulla testa e gli uomini sulle spalle ed era l’occasione per fare una sosta prima di riprendere la fatica della salita, o della discesa se si veniva da Tramonti

Quello di fermarsi alle “pose” principali era quasi un rito che i biassei rispettavano anche perché la traversata da Biassa a Tramonti (o viceversa) era fatta da gruppi di persone che partivano assieme (per il tragitto occorre oltre un’ora di cammino) e discorrendo, alleviavano il disagio della lunghezza del percorso.

Lungo questo tratto iniziale di strada vi sono luoghi adibiti al culto: una croce di ferro infissa in un blocco di arenaria, una edicola con la statua della Madonna del Rosario; in questi luoghi i viandanti si fermavano qualche momento con il loro carico addosso per farsi il segno della croce e le donne per recitare una breve preghiera. Era di buon auspicio

per la lunga giornata da trascorrere nei campi. I bimbi, con il loro piccolo carico, camminavano in silenzio, rapiti dai racconti dei grandi che parlavano del passato e delle traversie del presente. Le vicende del passato, ingigantite dai ricordi, dai “sentito dire”, erano sempre qualche cosa di avventuroso, di mitico che i ragazzi ascoltavano e trasformavano con la loro immaginazione. Il presente rappresentava il reale quasi sempre legato alla povertà della loro esistenza e non aveva certamente bisogno di colpire la fantasia.

Su in alto, al passo, le direzioni per le diverse località si dividono: si scende lungo una scalinata sempre in arenaria per la Fossola mentre per Schiara e Monesteroli occorre percorrere un tratto di strada sterrata.

La scalinata per Fossola è ora in disuso da quando l’apertura della strada Litoranea ha reso più conveniente quella via per l’accesso alle cantine ed ai vigneti. In ogni modo, il sentiero prima e poi sul suo tracciato, la più comoda scalinata, è stata percorsa per centinaia di anni dai biassei ed è un’opera che merita di essere salvaguardata.

A circa metà strada della scalinata che dal monte scende alle cantine di Fossola, vi è una grossa quercia centenaria (daa lizza) che ha visto trascorrere il tempo e la gente che, spossata dalla fatica, la sera faceva ritorno a Biassa. L’uomo con la “cavagna” a forma rettangolare con due maniglie nella parte più lunga e nella quale infilava un bastone che posava sulle spalle, all’interno della quale trovavano posto tre fiaschi di vino che immancabilmente al ritorno riempivano lo spazio. La donna invece, con la “panea”, una cesta quadrata in bilico sulla testa poggiata sul “varcu”, uno straccio arrotolato che faceva da cuscinetto tra la testa e la cesta, che era servita al mattino per trasportare il poco cibo occorrente per la giornata ; alla sera in questa cesta trovava posto sempre qualche cosa da portare a Biassa.

Poco discosto dalla quercia, una lapide di arenaria ricorda la morte avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale (nell’aprile del 1944) di un ragazzo di 13 anni, Luciano Cidale, di Biassa, per lo scoppio di un ordigno bellico abbandonato tra i rovi.

Lasciato il bosco poco dopo la quercia, la scalinata scende fra campi di vigne, per la verità oramai quasi abbandonati, fino oltre la chiesetta degli Angeli Custodi; poi ripida, scende al mare. Questa scalinata purtroppo è quasi franata e occorre che vi si rimetta mano al più presto, opponendosi alla natura che cerca di cancellare l’intervento dell’uomo. Il 2 ottobre si festeggia la ricorrenza degli Angeli Custodi, forse in ricordo di lontani culti pagani, in occasione della vendemmia che in altri tempi culminava, più o meno, in quella data.

Percorrendo l’altra strada, quella per Schiara e Monesteroli, oltrepassata la chiesetta di sant’Antonio, attraverso resti di periodici incendi boschivi, si scorge il mare verso l’orizzonte e, ancor prima di iniziare il tratto di scalinata, si incontra lo spiazzo del “menhir” o “Croce di Schiara”.

La gente di Biassa ha dato una sua interpretazione allo spiazzo: per loro è un luogo di sosta, o meglio la “posa” e tale è infatti la denominazione data a questa località. Infatti chi percorreva a piedi la strada che sale da Schiara e Monesteroli, lì si fermava prima di iniziare il falsopiano che conduce alla chiesetta di S. Antonio abate.

Raccontavano i “vecchi” che in quel luogo si presentò ad un biasseo, che nottetempo si recava a Schiara, il diavolo. Per scongiurare il ripetersi di tali incontri, su quella roccia tronco conica fu posta una croce, con chiaro intento di cristianizzazione. La croce di ferro battuto fu infissa, con piombo fuso, nel blocco di arenaria; alcuni anni fa, è stata asportata da ignoti, che la segarono alla base e fu in seguito sostituita con altra di minor pregio. Vicino alla posa un rifugio ricavato nel muro di sostegno della piana soprastante serviva da riparo contro le intemperie.

Proseguendo sulla mulattiera, poco dopo si incontra il Maupassu (Malpasso) e scendendo ancora si arriva a Veo. Qui si dividono ancora le strade dei biassei che hanno le cantine a Schiara e Monesteroli. Per Monesteroli si scende tramite una scalinata non troppo ripida sino ad un punto dove lo scenario appare di incomparabile bellezza. Il luogo si chiama Rebui: a destra si vede la Fossola e in lontananza le Cinqueterre e il Mesco; a sinistra lo Scoglio Ferale, le coste di Schiara e le isole al largo di Porto Venere: Palmaria, Tino, Tinetto.

Per raggiungere le cantine di Monesteroli da quel punto bisogna “tuffarsi” e scendere a perpendicolo per la “scainada grande”, una scalinata da capogiro fino ad arrivare alle cantine sulla roccia perpendicolare e nuda. Un tempo per queste scalinate scendevano uomini con le corbe ricolme d’uva per vinificare nelle cantine poste in basso, dato che la maggior parte dei campi erano situati nella parte alta della costa e poi successivamente, quando il vino era pronto, le risalivano con e barì (i barili) pieni sulle spalle (un barile equivaleva a quaranta litri).

Il miglior vino di Tramonti era senz’altro quello fatto con l’uva di Monesteroli.

Chi invece scende a Schiara, poco dopo il bivio con Monesteroli incontra un tratto pianeggiante, detto “cian de Veo” (pianoro di Veo) con alla sinistra una schiera di “casoti” che un tempo ospitavano animali domestici o servivano come deposito attrezzi o riparo. Dopo la “costa di Veo”, dove sono visibili piante di “süveo” (sughera), una rarità al limite di sopravvivenza di questa specie, si arriva alla fontana di Nozzano. Detta fonte è posta a lato dell’omonimo canale.

Si tratta di una costruzione abbastanza grande costruita attorno alla sorgente nel 1805 dai soldati napoleonici accampati nei castagni, sempre detti di Nozzano un po’ sotto la sorgente.

Questo luogo è ricco di castagni ed è attraversato da un sentiero provinciale che un tempo collegava tutte le località abitate di Tramonti.

Nel tratto di sentiero che attraversa i castagni di Nozzano si incontra una roccia che reca scolpita una croce inscritta da un cerchio.

Proseguendo dalla fontana di Nozzano si arriva al Campodonico, una delle poche località pianeggianti di Tramonti (Cian de Veo, Cian der Campudonegu,Cian de Büti). La vista spazia sulle isole e sul mare aperto, dove con giornate di buona visibilità si vedono in lontananza l’isola d’Elba, la Gorgona, la Capraia e la Corsica.

Si scende quindi a Schiara sino alla piazzetta antistante la chiesetta di S. Antonio da Padova. Da lì al mare, circa settecento gradini coprono un dislivello di 220 metri.

L’impressione è di un ripido volo e il mare trasparente è l’ambito traguardo.

 

 

 

Scuola di vita e scuola scolastica


 

Il periodo del lavoro nei campi di Tramonti inizia subito dopo la vendemmia.

La prima operazione da fare è quella della “sfrascatura” (sfrascae), cioè togliere alle vigne parte dei tralci nel pieno della vegetazione.

Si ammucchiano questi tralci e foglie e si usano come concime per la vigna stessa. In un secondo tempo (sembra che il periodo migliore sia durante la luna calante di ottobre) si ripassano le vigne e si completa la potatura.

La famiglia, quindi, per poter ottemperare ai lavori nei campi era obbligata a restare a Tramonti per lunghi periodi, perché dopo la potatura occorreva pulire i campi (netezàe) per renderli atti alla successiva zappatura.

La gente si alzava presto al mattino per recarsi nei campi dopo avere bevuto, al buio, un po di caffè nero fatto nella pentola, riutilizzando i fondi del caffè dei giorni precedenti (caffè alla turca, dicevano).

I bambini in età scolare si preparavano per andare a scuola. Naturalmente non c’era scuola a Tramonti: occorreva recarsi a Biassa ed i bimbi dovevano affrontare un percorso oltremodo lungo e faticoso. Da Schiara, Fossola, Monesteroli, partivano all’alba per poter essere in orario a scuola.

Finite le lezioni era giocoforza rifare la strada inversa per ritornare a Tramonti dalla famiglia. Non tutti i bimbi avevano la possibilità di frequentare la scuola perché non tutte le famiglie potevano permettersi il lusso di far studiare i propri figli che, anche se piccoli, erano braccia valide al mantenimento della famiglia.

Il disagio del viaggio per raggiungere la scuola e tornare era alleviato dal fatto che i bimbi partivano per gruppi da ogni località e che la loro esistenza trascorreva all’aria aperta. La casa, infatti, era soltanto concepita come riparo per la notte e, talvolta, per mangiare.

Erano esonerati dalla fatica del viaggio soltanto quando per lavori nei campi di Biassa, la famiglia nuovamente vi si trasferiva.

La giornata nei campi trascorreva dall’alba al tramonto con una piccola sosta a mezzogiorno. Allora la donna toglieva dalla panea (cesta) lo scarso cibo che aveva potuto portare al mattino e si pranzava.

I lavori erano tra i più svariati: si dovevano ricostruire i muri a secco di sostegno alle piane, l’impianto di nuove viti, ripulire i sentieri, rifare gli scoli delle acque piovane ostruitisi durante l’estate e poi tutti i lavori pertinenti la pianta della vite.

La sera, un frugale pasto, quasi sempre come quello del mezzogiorno a base di verdure e di taiain (tagliatelle).

Dopo il pasto era il momento degli incontri. I giovani si ritrovavano nelle “puzze” (piccoli spazi coperti di stramaglia davanti alla casa) ed erano i magici momenti dei flirt, degli innamoramenti.

Non di rado questi giovani facevano molta strada e per incontrarsi non esitavano a percorrere sentieri impervi da una località di Tramonti all’altra alla luce di lampade a olio. Infatti esistevano sentieri di mezza costa che collegavano il Persico con Schiara sino a raggiungere Monesteroli e Fossola.

Poi finalmente a letto: un giaciglio fatto con un“saccone” di tela grezza pieno di paglia o di foglie di granoturco, rinnovato ogni anno a luglio al tempo della mietitura del grano.

 

 

 

I vigneti


 

La vite è sempre stata una delle principali fonti di sussistenza dei biassei. I vigneti iniziavano dove si frangeva il mare nelle sue furiose libecciate e arrivavano quasi alla sommità del monte. I migliori erano considerati quelli in basso, verso il mare: Cà Vèce, Cuunbàa Lizzadèu, Zése, Cantunèu, Burdàiu ecc. Infatti il vino prodotto in tali località aveva almeno un paio di gradi in più rispetto a quello prodotto a Veu, Campudònegu, Lumenadi, Büti, ecc. che erano più in alto.

Il “rinforzato” o “dolce” proveniva dalle bassure di Tramonti e il rinomato “oro di Biassa” pure. Certamente la coltivazione di questi terrazzamenti era molto più impegnativa e faticosa. La terra (o almeno quella che avrebbe dovuto essere tale) era formata da scaglie scistose e arse dal sale marino e dal sole.

I vigneti erano di un intenso color verde e l’uva, dorata, era coperta da una patina di sale.

Quando soffiava il libeccio le onde del mare che si frangevano contro la scogliera liberavano un pulviscolo che, radendo i muri si posava sulle vigne e, spinto dal vento saliva in alto.

Dai campi si respirava l’odore dello iodio e del sale che bruciava le narici.

Giù in basso, l’uva maturava molto prima che nelle zone alte: si racconta che per la festa di S. Antonio da Padova (il 13 giugno) il parroco officiasse la messa nella chiesetta intitolata a questo santo, che si trova a Schiara, spremendo direttamente nel calice il primo grappolo maturo delle Zése o del Cantunèu.

Nei primi giorni di agosto i contadini di Tramonti portavano già al mercato della Spezia i cestin (ceste) di uva di queste zone.

Quella di sistemare l’uva nei cestini era un’arte che soltanto le donne di Biassa sapevano fare: mettevano in bella mostra i grappoli più dorati senza che si vedesse in alcun modo il picciolo del grappolo. Queste ceste pesavano dai 12 ai 18 chilogrammi. L’uva veniva raccolta nei momenti freschi della giornata, quando l’ombra faceva risaltare di più i grappoli maturi, che quindi erano più facilmente individuabili.

La fatica che i contadini facevano era sovrumana. Dovevano scendere nei campi vicini al mare percorrendo impervi sentieri, raccogliere l’uva, raggiungere le cantine di Tramonti e da lì ripartire in giornata valicando “il monte” e scendere a Biassa. La mattina successiva, alle quattro, partenza per il mercato alla Spezia a piedi.

Dal luogo di raccolta al mercato, questa uva veniva trasportata per oltre due ore e mezzo. Durante il tragitto si doveva usare molta attenzione a non bavusae, cioè non toccare l’uva per non togliere la patina che la copriva.

“L’oro di Biassa” con gran dispetto dei proprietari di uve da tavola di altre zone, veniva venduta facilmente e ad un prezzo più alto. Gli acquirenti, in gran parte venivano da Genova apposta per comprare l’uva di Tramonti.

L’uva dei cestini era di qualità “bosco” o “regina”.

La vendemmia cominciava di solito verso la fine di settembre. Tramonti era allora un brulicare di uomini con le corbe in spalla e le donne con la “panea” (cesta) sulla testa in un continuo va e vieni dai campi alle cantine. Questi particolari contenitori dondolavano ritmicamente, al tempo con i lenti passi degli anziani e le corse dei giovani con il pesante fardello sulle spalle.

Le cantine erano sempre molto lontane dai piccoli vigneti e la gente era obbligata a lunghi viaggi per trasportare l’uva. Non era raro che dalla Fossola si trasportasse l’uva a Schiara e viceversa. Questo fatto era dovuto all’eccessivo frazionamento dei terreni, che, anche se disagevoli, per i contadini di Tramonti aveva una sua logica. Infatti, in caso di eredità, i vigneti erano divisi in modo che ad ogni erede toccassero terreni considerati più fertili ed una parte delle “bassure” più adatti per il rinforzato. Ma in questo modo i poderi venivano, di eredità in eredità, sempre più frazionati. Vi erano poi altri motivi per avere i campi distanziati uno dall’altro. A causa di micro climi varianti da una località all’altra, poteva succedere che l’oidio e la peronospora, malattie frequenti nei vigneti, attaccassero le proprietà possedute in una zona e non in un’altra. Adottando il metodo dei campi distanziati, c’era la possibilità di salvare parte del raccolto. Altrettanto succedeva per le grandinate che, precipitando spesso in modo frammentario potevano colpire una località e risparmiarne un’altra e siccome l’esistenza stessa del biasseo era essenzialmente legata alla coltivazione della vite, frazionando i poderi, si evitava di mettere in pericolo tutto il raccolto.

I sentieri erano tenuti puliti, l’acqua piovana ben regimata e i muretti a secco rifatti. Lungo i sentieri, a tratti, vi erano delle pose dove chi trasportava carichi si fermava per un breve necessario riposo.

La posa consisteva in una pietra piana ben sistemata su un muro ad altezza di spalla.

Centinaia di sentieri si intersecavano per ogni dove: dal mare con ritmo vertiginoso salivano alle cantine poste a metà costa e dall’alto scendevano talvolta per ripide scalinate (come la scalinata di Monesteroli).

I bambini ben volentieri aiutavano gli adulti portando cavàgnöe (piccole ceste) e aiutavano a vendemmiare.

A setenbre sporchi ma savuli” (sporchi ma sazi) dicevano dei bambini perché erano sporchi di mosto e c’era abbondanza di cibo, sopratutto uva, fichi e pesche che si trovavano nei campi.

La sera, dopo cena e dopo aver controllato le botti, i vicini di casa si trovavano riuniti in una delle pozze. La pozza era la porzione di terra battuta che quasi ogni cantina aveva davanti alla porta di entrata. Era sempre rifornito, questo locale, di strame fresco che serviva in un secondo tempo da concime per le viti ed era il luogo preferito dai bambini che al buio si sdraiavano ad ascoltare i racconti degli anziani.

Certamente, il periodo della vendemmia era il più bello dell’anno perché si raccoglieva il frutto del lungo lavoro nei campi. Era la fine di un ciclo che ricominciava subito dopo aver vuotato del mosto l’ultimo tinèu (tino).

Occorreva anche vendere il vino per pagare i debiti fatti durante l’anno.

Per la festa patronale di S. Martino (11 novembre) i frequentatori delle osterie volevano già bere il vino nuovo. Era necessario che prima di quella data i contadini di Tramonti si fossero dati da fare per vendere il loro prodotto.

I primi a vendere erano i proprietari dei campi nella parte bassa di Tramonti.

Partivano allora torme di uomini con ’e barì (i barili) che si recavano a prendere il vino. Il barile era un recipiente in legno dal contenuto di quaranta litri che i “camalli” trasportavano pieno di vino da Tramonti a Biassa in un’ora di tempo.

Soltanto poche donne si erano cimentate in simili sforzi ma si racconta di una donna di Biassa, Alcida Gianardi,che agli inizi del ’900 portava con sè il figlioletto in braccio e il barile sulla testa e mentre camminava trovava la forza di allattare il piccolo.

Naturalmente non tutto il vino era venduto a Biassa per cui succedeva che gran parte di questi barili dovevano essere trasportati da Tramonti alla Spezia.

Discorso a parte merita il vino “dolce” o “rinforzato”. Esso è il corrispondente dello “sciachetrà” delle Cinque Terre ma fatto con sistemi diversi. Infatti mentre l’uva delle Cinque Terre viene fatta appassire all’ombra, in luoghi riparati, a Tramonti veniva messa a seccare al sole sui muri dello Speladu, Cà Vècie, Lizzadèu, Güzerné, ecc. oppure sui tetti delle case di Tramonti.

Quando l’uva era pronta per essere schiacciata, era talmente dura che erano costretti a lasciarla qualche giorno nelle corbe per fare in modo che si ammorbidisse. Nel Persico e Monesteroli, il vino così ottenuto superava i 18 gradi alcolici.

Il metodo praticato da questi antichi vinificatori, farà certamente sorridere i moderni enologi, però sia il vino da tavola che il “rinforzato” hanno sempre ottenuto larghi consensi nei convivi dell’epoca.

Prima dell’epidemia di fillossera del 1920 la coltivazione della vite era più facile. Per l’impianto, bastava prendere dei tralci robusti, piantarli in profondità nella terra per farli attecchire.

La fillossera fece strage di viti e fu gioco forza fare nuovi impianti con tecniche diverse: occorreva piantare vitigni selvatici (viti americane) inattaccabili dalla malattia e successivamente innestarli. Nessuno dei contadini di Tramonti era in grado di fare l’operazione dell’innesto, per cui si fecero venire “innestini” dalla Sicilia, dove la fillossera aveva preso campo da molti anni.

Parte dei campi lontani furono abbandonati anche perché nel frattempo molti dei biassei si erano impiegati nelle industrie spezzine, specialmente nell’Arsenale e quella del contadino era diventata attività secondaria.

Inizia così, lentamente ma inesorabilmente, il declino di Tramonti.

 

 

 

Palazzo Cenere


 

Il diffondersi dell’uso del cemento fu un dramma per i biassei.

Decine di cave di arenaria erano in piena attività sin dai tempi della costruzione dell’Arsenale, dei forti intorno alla città e in ultimo del porto.

Le invenzioni sono indice di progresso, ma c’è sempre qualcuno che ne paga le conseguenze. I cavatori e gli scalpellini di Biassa erano tra i più esperti in materia ma quel nuovo ritrovato poneva seri problemi alla loro sopravvivenza.

Gli ultimi decenni dell’800 avevano notevolmente cambiato il contadino di Biassa. Prima ci si contentava del lavoro nei campi: il vino era merce di scambio che consentiva di sopravvivere, unitamente ad altri prodotti agricoli che coltivavano nei campi di Biassa.

Poi con la costruzione dell’Arsenale, l’industria della pietra aveva procurato loro un salario e una maggiore disponibilità finanziaria, ma questa fonte di guadagno stava inaridendosi: i cavatori e gli scalpellini biassei, avrebbero dovuto ritornare a lavorare soltanto la terra e tornare a vivere quindi nelle condizioni disagiate di prima. Nei primi anni del ’900 il Consiglio Comunale aveva approvato la costruzione del nuovo Palazzo di Governo sullo stesso luogo del vecchio, nell’attuale piazza Beverini e malgrado l’abbondanza delle cave nel circondario e del marmo nella vicina Carrara aveva deciso di costruirlo in cemento, la cosiddetta “pietra artificiale”.

       ...’n monumento

       de pantan pietrificà!

       Deghe o nome de cimento,

       ma l’é supa e pan bagnà!..


esclamava il Mazzini in una delle sue “Cansonete de Carlevà” (A Speza vista d’en Paadiso - 1903), preoccupato per questa costruzione.

Contro la decisione del Consiglio vi furono delle forti opposizioni nonché accuse di interesse privato della giunta.

L’ing. Fausto Pegazzano dimostrò con calcoli precisi, la convenienza di adoperare pietre delle cave locali per le decorazioni esterne al palazzo. Oltre ad un risparmio sulla spesa nei confronti della “pietra artificiale”, ed un maggior valore architettonico, vi era anche un risvolto sociale in quanto ne avrebbero tratto beneficio gli operai delle cave spezzine. Invece i pezzi prefabbricati in cemento costruiti dalla ditta Chini, arrivavano addirittura da Genova.

Tenendo conto soltanto della somma preventivata per l’esterno del Palazzo, che era di lire 85.000, e spendendola nelle cave locali, avrebbe dato lavoro ad almeno cento fra scalpellini e cavatori per un anno!

La somma fu poi abbondantemente superata, si arrivò infatti ad oltre 300.000 lire.

La prima domenica di maggio del 1902 fu organizzata dalla Camera del Lavoro una manifestazione, a nome della Lega degli scalpellini, al politeama Duca di Genova per protestare contro la decisione comunale. Quella mattina scesero da Biassa per la prima volta i numerosi scalpellini ivi residenti. Uscivano dal loro secolare isolamento a gridare la loro condizione di salariati e il loro diritto al lavoro. Avevano anche scritto, in biasseo, una canzone di protesta che iniziava così:

A partìmu da Biassa

per rengraziàe i nostri padrun

che cun a “pietra artificiale”

i ne fanu mangiàe stì bèi bucun…

Partiamo da Biassa

per ringraziare i nostri padroni

che con la “pietra artificiale”

ci fanno mangiare questi bei bocconi...


 

Dal politeama, oltre mille persone si diressero in corteo sotto la pioggia verso la piazza del Municipio, urlando «Abbasso la pietra artificiale», «Abbasso la Giunta». Qui li aspettavano i questurini che sciolsero con i bastoni la loro manifestazione.

Gli amministratori, sordi alla protesta, fecero iniziare i lavori del Palazzo (chiamato ironicamente, “Palazzo Cenere” per il colore) che fu completato nel 1907.

Durante l’ultima guerra fu distrutto dai furiosi bombardamenti alleati; ora le sue macerie giacciono a pezzi lungo il Molo Italia come frangiflutti assieme ad altri anonimi blocchi di pietra.

 

 

 

Bombe in mare


 

Erano altri tempi. Tempi duri per i biassei che vivevano gran parte dell’anno abbarbicati a quella costa impervia, avara di tutto meno che di colori: il verde dei vigneti che dal mare salivano sino al monte; l’oro dei grappoli di “bosco” o di “albarola” che assieme all’uva “regina” (da tavola) erano “l’oro di Biassa”; l’azzurro del mare incontaminato dove lo sfregare dei muggini e delle orate contro gli scogli lanciava bagliori più o meno prolungati e intensi. «I vouzu» (sfregano), diceva il contadino di Tramonti che, secondo il numero e l’intensità degli “specchi” sapeva distinguere la quantità e la qualità del pesce che si sfregava a riva per deporre le uova.

Nei tempi precedenti la seconda guerra, il contadino di Tramonti era pure cavatore e scalpellino. Vi era sempre per loro la possibilità di procurarsi un po’ di esplosivo, qualche detonatore e un pezzo di miccia. Ecco che allora, il contadino-cavatore si trasformava in pescatore: pescatore di frodo. Erano condizioni di emergenza (come dopo la seconda guerra, ma allora c’era abbondanza di esplosivo): portare qualche chilogrammo di pesce a casa significava festa per tutta la famiglia e valeva bene il rischio di manipolare l’esplosivo.

Er curpu (l’ordigno) si faceva così: si metteva in un barattolo di latta la quantità di esplosivo, secondo la potenza che si voleva dare alla bomba; si batteva ben bene con il manico di legno del mazzuolo sino a renderlo compatto e si sistemava il coperchio. Veniva fatto un buco nella lattina dove si introduceva il detonatore collegato a pochi centimetri di miccia perché questa doveva restare accesa sino ad arrivare a pochi metri sotto il pelo dell’acqua. Per non fare entrare l’acqua a contatto con l’esplosivo si adoperava un po’ di seu (mastice per botti).

Al momento dell’accensione, l’estremità della miccia veniva tagliata longitudinalmente e allargata in modo che la brace della sigaretta (che il pescatore doveva tenere sempre bene accesa) avesse facile esca alla polvere della miccia; il lancio nel bel mezzo del sàmegu (branco) di pesci, indi il botto.

Dei pesci morti, una parte restava a galla, altri andavano a finire sul fondo del mare. Se i pesci uccisi erano molti, chi aveva la fortuna di essere al mare, usufruiva pure lui della pesca perché i pesci, grazie alla corrente, si sparpagliavano in ogni parte.

Generalmente sulla scafèla (barca) si trovavano due pescatori i quali dopo avere lanciato la bomba, mettevano mano al salaio e in poco tempo raccoglievano i pesci a galla. Poi calavano in mare un recipiente cilindrico (u speciu) col fondo di vetro da cui si vedeva nitidamente il fondo marino, e mentre uno era ai remi, l’altro, aggiungendo più aste che sono lunghe pertiche di legno, (una asta era lunga quattro metri) secondo la profondità in cui erano adagiati i pesci morti e con all’estremità la fussena (fiocina), raccoglieva, infilzandoli, i pesci rimasti sul fondo.

Finalmente per qualche giorno c’era abbondanza di cibo!

Sebbene i biassei vivessero gran parte del loro tempo in prossimità del mare, non hanno mai dedicato molto tempo alla pesca. Forse per la mancanza di sicuri approdi, o forse perché il loro tempo era tutto preso dalla coltivazione della vite e dal rifacimento dei muretti a secco. Poi c’era il periodo dedicato a Biassa, dove nei numerosi campi tutto intorno al paese, coltivavano grano, patate, castagne e quanto altro necessitava per la loro sopravvivenza.

Non c’erano approdi, sulla battigia di Tramonti per cui le barche che saltuariamente servivano per la poca pesca effettuata, dovevano essere leggere ed erano perciò poco spaziose.

Queste barche, chiamate scafèle, erano costruite artigianalmente con tavole di pino locale, a due punte, piatte sotto ed erano molto instabili (giùse). Erano generalmente usate da due persone, con molta perizia.

Erano conosciute da tutto il paese con il loro nome. Non era la barca di..., era la Rilla", “l’Alba”, “Sandrina”, “Lea”, “Paesanella”, “Non ce n’è”, “Scapavia”ecc.

Due erano i tipi di pesca praticata dai biassei di Tramonti: una era quella con gli esplosivi di cui abbiamo parlato, l’altro era quello della pesca al polpo.

Questo secondo tipo di pesca consisteva, nell’individuare dalla scafela e attraverso lo speciu il polpo mimetizzato sul fondo marino vicino alla tana e, se il polpo era abbastanza scoperto, infliggergli una fiocinata scagliata con maestria per non dargli la possibilità di attaccarsi con i tentacoli agli scogli, nel qual caso era facile che riuscisse a staccarsi dalla fiocina. Altro sistema per pescare il polpo era quello di calare nelle sue vicinanze l'arpetta (l’unione di quattro grossi ami fusi nel piombo) alla quale era annodato un piccolo straccio bianco: il polpo attratto dal bianco si attaccava all'arpetta: un colpo deciso dall’alto sulla barca, rimaneva infilzato negli ami e tirato quindi a bordo.

A volte il polpo, diffidente, si rifugiava nella tana. Per farlo uscire si usava uno stratagemma che consisteva nel portare nelle vicinanze della tana un sacchetto di tela contenente un pezzo di verderame: un prodotto irritante che lo faceva schizzare via dalla tana e il pescatore pronto con la fiocina lo infilzava.

 

 

 

Povere vittime


 

La pesca con gli esplosivi era molto pericolosa e nel corso degli anni ha fatto molte vittime.

Il 9 agosto 1934, Gianardi Francesco, fu Antonio, detto Prete scese al mare dalla casetta dello Scau, dove abitava a Schiara nel periodo estivo.

Aveva quarantacinque anni, di professione era scalpellino, ma non aveva un lavoro fisso.

Di tanto in tanto andava a lavorare a La Ciotat in Francia, nelle cave di arenaria di quella cittadina dove risiedevano tanti biassei fuggiti dalla miseria e dal fascismo.

Quel giorno portò con sé una delle quattro figlie, di quindici anni, il primo dei due figli maschi di diciassette anni e l’ultimo nato, di appena dieci anni. A Tramonti, l’unico divertimento dei giovani dell’epoca era il mare. Si doveva scendere per una ripida scalinata che portava al piccolo scalo dove con la bonaccia si tiravano a secco le barche, e da li si recavano nelle piccole spiagge vicine per fare il bagno e giocare con i coetanei.

Gli uomini si industriavano ad andare di scoglio in scoglio lungo la costa e con lo scupèu (una specie di lungo scalpello) raccoglievano, tra le alghe, patelle e quanto di commestibile potevano trovare. Con quel magro pescato, le donne, la sera facevano un sugo in cui la famiglia intingeva il pane, ed era la cena.

Quel giorno, il Prete era riuscito a recuperare una “saponetta” di tritolo ed era sua intenzione servirsene per procurare un po’ di pesce per sfamare la famiglia numerosa che aveva a carico.

Mentre i figli scesi con lui nuotavano nella Ciazeta (Spiaggetta) assieme agli altri ragazzi, lui attraversò il Butau e si recò nel luogo scelto per la pericolosa pesca, detto “e canae”.

Voleva fare un po’ di brümezu (brumeggio) e una volta che si fosse radunato il pesce attirato dall’esca, buttare il tritolo. Così fece. Per qualche tempo buttò in mare il brumeggio di muscoli schiacciati e quando vide, per l’agitarsi dell’acqua, che c’era una buona quantità di pesci, innescò la “saponetta” e, accertatosi che nelle vicinanze non vi fosse nessuno a nuotare, accese la miccia per lanciare la bomba.

A causa forse della miccia difettosa, l’ordigno gli scoppiò in mano. mori dissanguato sullo scoglio tra le braccia dei figli.

Lasciò vedova sua moglie (la Taì) con quattro figlie e due maschi tutti in tenera età.

Si chiamava Candido Carro di Attilio detto “Vèli” e si era sposato da poco con la Maria di Agostino detto “Gusetu”. Dal loro matrimonio era nata una bimba che allora aveva appena sei mesi.

Si era nel 1935, il lavoro scarseggiava e Candido si adattava a qualsiasi genere di lavoro pur di portare a casa di che vivere. Era contento quando arrivava la nave carboniera (lui la vedeva arrivare da Tramonti): allora scendeva alla Spezia, a Marola, a svolgere il pesante lavoro di scaricatore.

Con le coffe piene di carbone, dalla stiva della nave, attraverso un sistema di tavole (trasti) che servivano al passaggio degli scaricatori, caricavano i vagoni dell’attigua ferrovia.

Ma navi da scaricare a quei tempi ne arrivavano ben poche nel porto, per cui nei lunghi intervalli tra una nave e l’altra si adattava a fare ogni tipo di lavoro nei campi di Tramonti. Purtroppo però i disoccupati erano tanti e non tutti i giorni riuscivano a lavorare e guadagnare lo stretto necessario per vivere.

Era il giorno dei morti, il 2 di novembre del 1935. Per il giorno successivo avevano deciso, lui e sua moglie, di battezzare la piccola Franca. Non si facevano grandi feste, in quelle occasioni, però era consuetudine cercare di non fare brutta figura nei confronti dei pochi parenti più stretti invitati alla cerimonia.

Candido si recò quel giorno a Monesteroli per prendere il vino necessario a festeggiare degnamente il battesimo. Là trovò il fratello Persio e insieme si recarono al mare di Monesteroli per cercare di pescare del pesce che certamente non avrebbe sfigurato sulla tavola il giorno dopo. Il metodo più sbrigativo per avere il pesce era quello di pescare con l’esplosivo. Misero dunque in mare la barca che era all’asciutto nella sua nicchia sullo scoglio Montonaio: Persio si mise ai remi e Candido a prua a guardare il fondo del mare con lo “specchio” alla ricerca dei pesci.

Dopo un poco di ricerche, ne avvistò un piccolo “sàmegu” (branco), sufficienti per il pranzo del giorno dopo. Portò la brace della sigaretta alla miccia dell’esplosivo ma questo, forse a causa della miccia difettosa scoppiò in aria appena dopo il lancio.

L’esplosione non gli procurò apparenti ferite ma fu talmente violenta che per lo spostamento d’aria ebbe gravi lesioni interne.

Fu trasportato ancora vivo a Riomaggiore dove mori poco dopo. Persio invece fu ferito gravemente ma si salvò anche se rimase profondamente segnato per tutta la vita.

Candido aveva ventisei anni, sua moglie, la Maria, ne aveva ventitre.

La vita per la Maria divenne ancora più difficile: senza lavoro dovette arrangiarsi. Non volle più risposarsi e si dedicò interamente alla figlia e ai lavori nei campi di Tramonti.

Strappava la vita aggrappata alle frane di Schiara dove raccoglieva verdi piante di asparagine che vendeva ai negozianti di fiori i quali li utilizzavano nella composizione dei mazzi floreali. Raccoglieva tutto quanto la terra di Tramonti potesse offrire, lo sistemava nella capiente cesta e la mattina seguente, prima dell’alba, si recava al mercato a vendere la sua roba.

Ancora oggi, a 84 anni, è il simbolo della operosità dell’antica gente di Tramonti: si alza presto al mattino e a piedi si reca nei vigneti. Zappa la terra ed esegue tutte le numerose operazioni per portare a maturazione l’uva.

Per contestare l’attuale inerzia dei giovani che non vogliono più lavorare la terra di Tramonti, dice: «Sino a pochi anni fa lavoravo da sola centoquindici campi tra grandi e piccoli...» Ora ne lavora qualcuno di meno ma continua la sua vita nei campi, caparbiamente, a dispetto di qualche dolore che la fa soffrire.

Osservando lei si riesce a capire il perché, sino a non molto tempo fa, la gente di Biassa avesse Tramonti nel sangue, magari in un rapporto di odio-amore: nel suo volto segnato dal tempo e dalla fatica si legge la caparbia volontà, l’attaccamento a questa terra quasi a esprimere, se ce ne fosse bisogno, più una scelta di rinuncia alla vita che a Tramonti.

 

 

 

Cibi biassei


 

Il cou (cavolo nero) era componente essenziale del cibo dei biassei sino agli anni successivi alla seconda guerra mondiale.

Poteva essere usato con i fagioli e le patate per fare la zuppa con il pane: un po’ di olio crudo, un poco di formaggio di pecora grattugiato, un pezzo di salsiccia lessata assieme al cavolo e ai fagioli.

Era questo il menu tipico e più frequente delle famiglie di Biassa.

Oppure nel minestrone : qualche sbrüi (cimetti) di cavolo, qualche patata, fagioli secchi, taiaìn (tagliatelle) fatti alla svelta nella mastra con il canun dai taiaìn (mattarello). Un paio di piatti di questa minestra toglievano la fame e la voglia di mangiare il secondo piatto che molto spesso non c’era.

La sera della vigilia di Natale era tradizione mangiare cavoli bolliti accompagnati da frittelle di farina di grano.

Nei campi dove erano state raccolte le patate, rimanevano in bella mostra queste verdi macchie di cavoli che dopo il primo freddo erano pronti per il pasto quotidiano sino alla fioritura a primavera.

Pianta essenziale anche per i molteplici usi a cui era destinato: la parte più tenera, il cuore, usata per la cottura e le grosse foglie più dure erano usate quale cibo per gli animali da stalla e da cortile, che quasi ogni famiglia possedeva. Le galline si accanivano contro di esse con il becco, spezzettandole e ingoiandole golosamente; i conigli e le pecore ne erano oltremodo golosi, anche se occorreva limitarne la quantità per evitare i disturbi gastrici che potevano dare loro.

I ragazzini invece prendevano il torsolo e dalla parte più tenera dove erano state tolte le foglie, con un coltello prelevavano la polpa, bianca e sugosa per mangiarla. Un gusto dolce e dissetante.

Tanta ricchezza di impiego specialmente durante la cottura, portava all’esalazione dell’odore sgradevole del cavolo bollito, per cui le abitazioni erano quasi sempre invase da questa puzza, che talvolta però ne mitigava altra più nauseabonda.

Era infatti costume avere gli animali nella stalla (come naturale) ma la stalla era quasi sempre al pianterreno dell’abitazione e poiché i solai erano generalmente di tavole, sono da immaginarsi le esalazioni che passavano tra gli interstizi.

Altra abitudine era quella di avere sotto la finestra del locale adibito a cucina un luogo chiamato, come a Tramonti, puzza, dove erano sistemate foglie secche di castagno (che venivano trasportate in capaci e particolari ceste, chiamate in dialetto ziste e altra stramaglia). Sopra questo materiale, dalla finestra, buttavano di tutto: dall’acqua sporca alle deiezioni corporali. Indubbiamente ne veniva fuori un buon letame, ma in quanto a odori...!

Un altro cibo che ha sfamato per secoli la gente di Biassa è la castagna. Un tempo i castagneti erano coltivati con grande cura e la raccolta delle castagne aveva la stessa importanza della vendemmia e della mietitura.

Seccate e macinate davano una farina utile tutto l’anno per sfamare le famiglie del tempo, generalmente con numerosa prole.

Nell’autunno, fresche, tolta loro la buccia e bollite (burdeghi) o “ballotte” con la buccia, erano un cibo calorico con cui si poteva mangiare a sazietà.

Con la farina se ne facevano castignazi (castagnacci) mettendo la pastella tra le foglie secche poste precedentemente in ammollo e fatte cuocere nelle braci. Oppure la polenta dolce, non troppo densa, da mangiare con il cucchiaio.

Tutti cibi rustici, ma che toglievano la fame e facevano campare.

È sorprendente il numero dei mulini ad acqua operanti nel territorio di Biassa. A poca distanza uno dall’altro, lungo il canale di Biassa e a cominciare dalla località “Pradu”, ve ne erano ben cinque ed hanno lavorato sino verso la fine dell’800 quando i lavori della sottostante galleria ferroviaria fecero sparire le abbondanti sorgenti esistenti a Biassa.

Infatti poco alla volta i mulini cessarono la loro attività ed ora sono ruderi tra i rovi, meno uno che è stato trasformato in abitazione, nei pressi delle ex fornaci di Biassa.

Il funzionamento di cinque mulini dimostra la grande operosità della gente del posto e quanto poco pesasse loro il volontario isolamento impostosi in tempi remoti.

Altri cibi abbastanza comuni della gente di Biassa erano lo stoccafisso e il baccalà, generalmente erano preparati quando la famiglia aveva persone a lavorare a giornata nei campi.

All’ora di pranzo, la donna arrivava nei campi con la “panea” sulla testa, nella quale era riposto il grande piatto fondo dove il baccalà (o lo stoccafisso) assieme alle patate era condito con olio, e i fiaschi di vino.

Si sedevano per terra tutti intorno all’unico piatto dove intingevano il pane e mangiavano insieme. Bevevano tutti allo stesso fiasco,; senza bicchieri, chi poggiandolo direttamente alle labbra e chi, tenendolo lontano beveva allo zampillo che scendeva (beve aa garganèla).

Non c’era cantina dove non fosse appeso ad una trave uno spesso baccalà da cui il contadino staccava una striscia da mangiare con il pane, accompagnando lo spuntino con possenti libagioni.

 

 

 

Lo scoglio Ferale


 

Roca da Gaiada” per i biassei o “Scoglio Ferale” per le carte nautiche, è uno scoglio a tronco di piramide a un centinaio di metri dalla riva, a Schiara, in mezzo al mare di fronte alla cosiddetta “costa da Gaiada”.

Questa costa era coltivata fino sulla scogliera, ma una frana, nel 1970, partendo dal sentiero che porta al Rebolu, ha portato via tutti i campi lasciando scoperta la viva roccia di arenaria. In tempi remoti anche lo scoglio era collegato alla costa perché si vedono ancora parti di roccia emergenti dal mare, chiamati “becheti”, a metà strada tra la roccia e lo scoglio stesso.

La “Roca da Gaiada” è un po’ il simbolo di Schiara, come “er Muntunau” (il Montonaio) è la roccia simbolo di Monesteroli e il “Merlin” (Merlino) la roccia della Fossola.

Una ingenua filastrocca accomunava i tre scogli circondati dal mare alle tre località di Tramonti di Biassa.

 

“N sa roca da Gaiada

la ghe canta a lümaga;

’n sa roca der Muntunau

la ghe canta l’animau;

’n sa roca der Merlin

la ghe canta l’uselin”.

 

“Sulla roccia della Gaiada

ci canta la lumaca;

sulla roccia del Montonaio

ci canta l’animale;

sulla roccia del Merlino

ci canta l’uccellino”


 

La roccia più imponente è però quella di Schiara.

“Gaiada” da “Gaiarda” (gagliarda) come scoglio possente che affronta “gagliardamente” gli assalti del libeccio. Un monolite di nuda arenaria alto una trentina di metri e con un perimetro a pelo d’acqua di un centinaio di metri. Lassù in alto nidificano i gabbiani e vegetano radi cespugli radenti il suolo a causa del vento che indicano il limitare dei marosi nella loro massima potenza.

Già nelle antiche carte nautiche, questo scoglio è indicato come “ferale”, forse perché il mare in tempesta gli sbatteva spesso contro le navi in difficoltà. La leggenda narra di fuochi accesi da malintenzionati sulla sommità per attirare le navi: una volta sugli scogli erano alla mercè dei predatori.

Nel 1888, un cartografo della Marina Militare, durante alcuni rilievi sullo scoglio, scivolò in malo modo, uccidendosi. Era un tenente di vascello a nome Luigi Garavoglia. I compagni d’arme posero in sua memoria, una croce di marmo bianco. Nel marmo era scolpita col piombo la dedica: «Luigi Garavoglia, Tenente di Vascello, i compagni d’arme posero 1888».

Questa croce, alta oltre due metri, tutta di un pezzo, era stata posta alla sommità dello scoglio attraverso un complicato sistema di verricelli di cui sono ancora visibili tracce. Pesanti blocchi, sempre di marmo, erano stati messi alla base della croce per fissarla al suolo.

Il 13 giugno del 1982, a Schiara, come ogni anno si festeggiava la ricorrenza della festa di “Santantunin”, S. Antonio da Padova, nella minuscola chiesetta a lui dedicata quando, improvvisamente scoppiò un violento temporale. Dalla parte di mezzogiorno, si fece d’un tratto tutto scuro e le nuvole vomitavano torrenti di acqua nel mare plumbeo mentre lampi e tuoni laceravano il silenzio e lo spazio di Tramonti.

Quello dei temporali a Tramonti è uno spettacolo che incute paura, ma è allo stesso tempo affascinante: i lampi si gettano in mare accompagnati da brontolii o secchi rumori di tuono. Il giorno si oscura e folate di aria fredda annunciano l’avvicinarsi della pioggia che, in basso, sferza il mare fattosi miracolosamente fermo. Scuri nembi di nuvole si abbassano toccando il mare e sollevano trombe di acqua marina, che partono veloci andando a scaricare altrove la loro potenza.

Poi arriva la pioggia che si infrange, rumoreggiando, sui tetti delle cantine, annulla la visibilità, ruscella, travolge: sovente si sente in lontananza il caratteristico rumore delle frane o lo smottamento dei muri.

Uno di questi temporali, quel 13 giugno 1982, lasciò il segno. Quella croce di marmo che in quasi cent’anni ne aveva affrontato di temporali, cedette e cadde sul lato verso il mare aperto.

Giacque a pezzi sulla scoscesa parete finché le mareggiate non ne cancellarono definitivamente l’esistenza.

Passarono alcuni anni: la gente di Tramonti guardava con rammarico lo scoglio monco, i gabbiani lanciavano i loro gridi volteggiando quasi a reclamare la mancanza del loro più amato appiglio, finché, in seguito ad alcune richieste per la sistemazione di un’altra croce sullo scoglio, la Marina Militare si sensibilizzò al punto di farne costruire una in acciaio inossidabile in Arsenale, che dopo essere stata pitturata in bianco, fu posta a sostituire quella in marmo crollata tre anni prima.

 

 

 

Le cipolle della “Ciosa”


 

È da presumere che i campi siti in località Ciosa, nei pressi di Casavecchia, siano stati dissodati dai primi abitatori di Biassa, quando ancora erano legati alle vicende dell’antica chiesa di S. Martino Vecchio. È invece certo che essi sono stati lavorati sino alla fine degli anni ’50 e piano piano dismessi completamente qualche anno fa.

È una località ricca di acqua ma la maggior parte delle sorgenti erano state incettate dall’azienda dell’acqua all’inizio del secolo per alimentare le fontane pubbliche di Biassa.

Una parte di questa acqua correva però libera nel canale detto appunto della Ciosa e i campi di questa località erano coltivati quasi esclusivamente a cipolle.

Quella delle cipolle faceva parte dell’arte di arrangiarsi della popolazione biassea che sebbene fosse notoriamente chiusa, non perdeva però occasione di rinpinguare lo scarso reddito famigliare commerciando tutto quello che era possibile e che era richiesto dalla “ricca” gente della Spezia.

Le cipolle della “Ciosa” erano molto ricercate dai contadini dei paesi vicini ed era un buon affare coltivarle. Questa coltivazione richiede molta acqua per cui quella disponibile andava parsimoniosamente utilizzata. C’erano dei veri e propri turni che permettevano a tutti di avere l’acqua occorrente, anche se a volte durante lo svolgimento dei turni, le discussioni sulla distribuzione dell’acqua degeneravano in liti. Nel canale l’acqua riempiva il “bozo” (laghetto), occorreva allora attingere alla svelta per riempire i recipienti (baie di lamiera zingata o anche di terracotta) e poi annaffiare i cipollini con la sássua (aspersorio di legno).

Ad ottobre i cipollini erano pronti per il trapianto ed allora venivano raccolti in mazzetti e, messi in una cesta, le donne li portavano al mercato per la vendita oppure si recavano a venderli nei paesi del circondario.

Inoltre sino a molti anni dopo la fine della guerra, i biassei commerciavano, oltre ai prodotti dei vigneti (uva, vino, aceto) anche ciocchi di stipa usati per il riscaldamento delle “signorili” case spezzine, pigne per accendere i caminetti, la terra di castagno ottima per i fiori, castagne, mazzetti di rosmarino e timo di cui era ricco Tramonti.

Nelle ceste delle donne trovavano pure spazio mazzetti di profumati narcisi, che a Tramonti ornano le frane e i terreni abbandonati e di violacciocche che i biassei chiamano “fiui barchi”. Inoltre erano molto richiesti dai fioristi mazzi di spargae (asparagine), rami di armotùu (corbezzolo) e felci secche che erano utilizzate per confezionare mazzi di fiori o corone funerarie.

Nella ricorrenza delle feste natalizie erano richiesti rami con palline rosse quali il pungitopo e l’agrifoglio.

 

 

 

La “Roccia dei disertori”


 

Tra il Lizzadèu e i Puzai, sopra la spiaggia dei Cantun, affiorava tra il verde dei vigneti una roccia: la roccia dei disertori.

Ora i vigneti sono abbandonati, ma ai tempi della Prima Guerra mondiale, i Puzai erano coltivati sino nel più piccolo anfratto di roccia. Non era raro a Tramonti, trovare piccole piane dove erano piantate una o poche più viti e questi campi erano chiamati “fusiai” perché paragonati ai focolari delle case.

La costa era talmente ripida che l’area del muro a secco di sostegno del campo era di gran lunga superiore dell’area della piana che sosteneva.

I gradini della scalinata che dal Lizzadèu, attraversando i Puzai, saliva sino a Rebui erano in gran parte pietre piatte di arenaria infisse nei muri cotti dal sole ed era oltremodo faticoso scendere o salire per quelle scalinate. Figuriamoci poi con la corba piena d’uva o le donne con la pesante cesta sulla testa!

Più sotto si stendeva il Lizzadèu, abbastanza pianeggiante, con i larghi campi e i muri più bassi che, con le Zése, confinava con il mare.

In uno di questi campi dei “Puzai”, quasi al confine con il Lizzadèu, vi era la cosiddetta “roccia dei disertori”.

Alla base di questa roccia, proprio al livello della piana delle vigne vi era l’entrata di una grotta non tanto grande ma che poteva ospitare alcune persone. Questa entrata era nascosta da un filare di viti che da terra salivano aggrappate ad un reticolo di filo di ferro (paeda) sino alla parte alta della parete rocciosa ed era perciò nascosta alla vista di chiunque non ne conoscesse l’ubicazione.

L’utilizzo di questa grotta, prima della Grande Guerra, era quello di servire da riparo ai contadini per proteggersi dalla pioggia o dal sole durante i lavori nei campi. Il suo nome derivava dal fatto di essere servita da nascondiglio per i soldati disertori.

Sebbene il fronte fosse lontano da Biassa, la guerra del 15-18, era molto sentita dai biassei perché molti furono i suoi giovani che vi parteciparono.

La durata e la durezza della guerra crearono malcontento tra di loro tanto che molti non rientrarono più dalle licenze o convalescenze e si diedero alla macchia. Alcuni si rifugiarono in questa grotta e attesero la fine della guerra.

Erano ricercati dai carabinieri, che però non riuscirono mai a rintracciare il loro nascondiglio.

I viveri erano riforniti dai parenti che con la scusa di andare a lavorare nei campi ne profittavano per tenere i contatti con loro.

I giovani biassei che trovarono la morte in questa guerra così lontana furono:

Carro Luigi di Francesco morto a Tolmino il 25 maggio 1917

Carro Domenico di Gio Batta morto a Drezenta il 12 luglio 1917

Carro Luigi fu Domenico morto a Missù il 23 novembre1917

Canese Attilio fu Domenico morto in Francia l’11 gennaio 1916

Gianardi Enrico fu Marco morto nel Trentino l’1 febbraio 1917

Gianardi Emilio fu Gaspare morto a Velipi Hnbasti l’11 ottobre 1916

Gianardi Adolfo fu Gio Batta morto in prigionia

Lombardi Armando di Francesco morto a Istretto Silsavosc il 12 luglio 1916

Lombardi Anselmo fu Gio Batta morto a Podgora il 6 agosto 1916

Poli Riccardo fu Riccardo morto in prigionia.

 

 

 

Squadristi a Biassa


 

Era il 14 dicembre del 1922. Da oltre un anno gli squadristi fascisti bastonavano e uccidevano inermi cittadini solo perché di opinione diversa.

A Biassa l’antifascismo era molto radicato. Infatti è stato l’ultimo paese della provincia ad essere conquistato dagli squadristi. Avevano provato più volte, ma le campane a martello avevano fatto accorrere tutta la gente del paese facendoli battere in ritirata.

In seguito l’avevano purtroppo fatta pagare questa loro sconfitta!

Dopo avere fatto proseliti a Biassa, i fascisti avevano bastonato e fatto bere l’olio di ricino ai loro avversari, tanto che, per sottrarsi alle bastonature e soprusi era iniziato un massiccio esodo verso la Francia.

Era stata talmente forte questa migrazione che erano nate vere e proprie colonie di biassei fuoriusciti. La Ciotat, St. Raphael e Frejus, cittadine del sud della Francia avevano dato loro asilo tanto che oggigiorno numerosissimi sono i discendenti dei biassei colà rifugiatisi.

Nel piccolo porto di La Ciotat, non sono trascorsi molti anni da quando, transitando sul lungomare, si sentiva la gente del posto discorrere in dialetto biasseo.

Era il 14 dicembre del 1922, dunque. Era una giornata fredda e nei campi di Schiara non c’era quasi nessuno a lavorare anche perché si era avuto sentore che una banda di squadristi si stava recando a Schiara e la paura per questi figuri era talmente tanta che consigliava la gente a restare nascosti.

Nella mattinata si erano avute le prime avvisaglie quando cantando le loro truculenti canzoni, una parte di quella gentaglia guidata dagli squadristi di Biassa si era recata all’Agreta nella cantina di Lombardo Oreste, detto Rinaldo, di Pietrò, che era stato sino all’avvento del fascismo consigliere socialista del comune della Spezia e quindi considerato nemico da eliminare.

Il Lombardo si trovava a Tramonti ma sentendoli arrivare si era andato a nascondere assieme ad alcuni vicini di casa nel vicino bosco del Luvau.

Non trovandolo in casa, i fascisti, per ritorsione gli sfondarono la botte piena di vino e, rotte le damigiane del rinforzato, diedero fuoco alla casa.

Nel frattempo però erano già successe cose che la gente che si trovava a Schiara non poteva ancora sapere.

Certo Carmè Francesco, detto Rana, di Biassa, di 27 anni, figlio di Luigi e di Lombardo Barbara, detta Barbuina, era notoriamente antifascista e i fascisti volevano fargli pagare cara questa sua opposizione.

Lo stavano cercando da più giorni ed egli, avendolo saputo, aveva deciso di riparare in Francia, come lo avevano già fatto tanti suoi compaesani. Era un giovane, reduce della Grande Guerra, ferito nella ritirata di Caporetto. Per farsi riconoscere una invalidità dovuta a quelle ferite, doveva quel giorno recarsi presso la commissione medica, istituita a Genova.

Sapendo di essere ricercato, anziché salire sul treno per Genova alla stazione della Spezia, preferì recarsi a Riomaggiore. I fascisti lo seppero, lo prelevarono e lo portarono alla Spezia. Non contenti della sua cattura, vollero portarlo con loro a Schiara dove contavano di catturare pure il Lombardo.

Arrivarono al Telegrafo in tempo per vedere i cavatori di Biassa che salendo da Vaisèla si recavano a lavorare nelle cave del Parodi e ne bloccarono alcuni che portarono con loro. Fallita, dunque, la spedizione contro il Lombardo (che uccideranno in seguito bastonandolo a morte e gettandolo in una scarpata a Pegazzano il 31 maggio del 1930) presero la via del ritorno, sempre con il Carmè prigioniero e non paghi della distruzione della cantina di poco prima, si recarono nella casetta che il Carmè aveva in località Vignöi.

Qui tra la confusione generale, spari, grida, canti, si accanirono sul poveretto massacrandolo di colpi e lo legarono alla scala di legno in casa.

Intanto uno degli squadristi torturatori, certo Eraldo Cozzani, figlio di Giulio, studente universitario di 21 anni, si era involontariamente ferito con un colpo di moschetto partito mentre, tenendolo per la canna, colpiva col calcio Francesco Carmè.

Il segretario politico del Fascio della Spezia Augusto Bertozzi, presente alla spedizione punitiva, inviò uno dei numerosi fascisti di Biassa presenti, a prendere la lettiga nella Pubblica Assistenza di Biassa, che ritornato con una squadra di militi, portò il Cozzani all’Ospedale della Spezia.

Il Carmè era ancora vivo.

Partito il ferito, e non ancora contenti, i fascisti rimasti si sparpagliarono nei campi intorno alla casa alla ricerca di legna.

Trovarono fasci di sarmenta e di paletti che erano utilizzati dai contadini per il sostegno delle viti e li sistemarono intorno al povero Carmè.

L’orrore!

Diedero fuoco a quei paletti asciutti che si accesero come paglia: bruciarono vivo Francesco Carmè, soltanto perché non condivideva le loro idee!

 

 

Sei mesi dopo questo crudele delitto, altro sangue, altri massacri.

Il 7 luglio 1923 tre giovani biassei, cavatori di professione, antifascisti per scelta politica, decisero di aprire una cava di pietra calcarea in località Redemè.

La sera prima, nell’osteria sulla piazza del paese si accordarono sall’orario di partenza e decisero di festeggiare l’apertura della cava con del buon vino di Tramonti e lo stoccafisso.

I tre giovani si chiamavano Umberto Faita, Emilio Gianardi e Eugenio Carmè, fratello di quel Francesco assassinato il 14 dicembre dell’anno precedente.

Partirono presto sul far dell’alba, portando con loro il cibo, il vino, alcuni attrezzi da lavoro e l’entusiasmo dei giovani per il primo giorno di lavoro in proprio.

Dal Sarecchio il sentiero si inoltra dapprima, sino al canale detto della Piaza, in mezzo ai castagni, poi dopo una breve salita inizia l’altra parte di sentiero tutto pianeggiante sino alla Costa da Piaza. A quel tempo tutta la parte del Parodi lato Biassa, al di sotto della Pianela era coltivato: Piaza sutana, Piaza de mèzu, Piaza d’usèu (Piaza d’uccello) sù in alto.

Tutte queste località erano coltivate principalmente a grano: una terra rossa, friabile, di facile lavorazione.

Al di là della Costa da Piaza, che era al confine, iniziava Redemè il cui sentiero continuava sino alla Foce. Nella zona più pianeggiante vi erano pure alcune casette costruite sullo stile delle cantine di Tramonti. In questa zona molto soleggiata, l’uva rivaleggiava con quella di Tramonti sia per la maturazione che per la bontà del vino.

Da Redemè scendeva una ripida scalinata di pietra che arrivava nei pressi delle Fornaci di Biassa.

Quel mattino di luglio, i tre giovani arrivarono alla Costa da Piaza prima che i raggi del sole uscendo dalle Alpi Apuane si posassero sulle mura semidiroccate del Castello di Coderone sul poggio nel bel mezzo della conca formata dal Santa Croce e dal Parodi. Biassa, ancora assonnata, udì numerosi colpi di arma da fuoco: Umberto Faita e Emilio Gianardi colpiti a morte stramazzarono tra le bianche rocce di calcare che affiancano il sentiero. Eugenio Carmè cercò di scappare, ma fu mortalmente ferito in uno dei piccoli campi coltivati a vigna di fianco al sentiero che in quel punto scende.

L’agguato mortale dei fascisti aveva raggiunto il suo scopo. Gli altri dovevano stare attenti...!

Sentendo gli spari e intuitane la provenienza, i famigliari delle vittime immaginarono il peggio e si recarono sul posto assieme ad altre numerose persone, dove trovarono dapprima i corpi senza vita del Faita e del Gianardi. Fra gli accorsi c’era pure la Barbuina a cui i fascisti avevano già ucciso un figlio.

Non lo vide dapprima ma l’illusione durò poco. La poveretta, dalla disperazione si portava alla bocca l’erba e la terra intrisa di sangue come se quel gesto potesse ridare la vita al figlio.

Nel primo processo che seguì la strage, presso gli Uffici Giudiziari della Spezia, i famigliari delle vittime erano assistiti dall’avv. Filippo Guerrieri (che in seguito sarà deputato alla Costituente). Dovendo recarsi alla stazione della Spezia per prendere il treno per Genova, dove abitava, fu bastonato duramente dai fascisti e gettato sul treno. Il processo proseguì presso la Corte d’Assise di Chiavari ma i colpevoli non furono mai condannati.

Tragica sorte quella dei Carmè: il terzo fratello, Emilio, mori combattendo nella Resistenza Francese.

A Liberazione avvenuta, una lapide venne murata sulla Piazza del Monumento (poi fatta togliere) che ricordava i caduti dell’ultima guerra, su cui era scritto:

Barbaramente trucidati dai fascisti:

Carmè Francesco, Carmè Eugenio, Gianardi Emilio, Faita Domenico, Lombardo Oreste.

 Morti per la Liberazione:

Carrodano Mario, Carro Domenico, Arienti Egidio.

Morti per bombardamenti aerei:

Bertani Giovanni, Cidale Luigi, Callegari Enrico, Gianardi Antonio, Bertani Agostino,

Cidale Plinio.

Caduti per la Patria:

Sommovigo Nando, Carrodano Ianello, Melli Leandro, Gianardi Adriano.

Caduti in terra di Francia:

Gianardi Ugo, Carmè Emilio, Carrodano Italo.

Deceduti per cause belliche:

Cidale Luciano, Carrodano Natale.

 

 

 

Il sale di Tramonti


 

Gli anni dell’ultima guerra sono stati duri a Biassa e Tramonti. I giovani,tenuti sotto controllo dalle forze armate tedesche e incorporati nella TODT, erano costretti a costruire strade e altre opere di interesse militare per gli occupanti. Ricevevano per questo una paga e qualche viveri, specialmente di quel pane tedesco scuro fatto col segale.

Riuscivano a campare, ma gli altri Biassei dovevano tirare la cinghia viste le scarse risorse che si trovavano sul luogo e con quelle razioni che ricevevano con la tessera annonaria, c’era da stare poco allegri.

La fame aguzza l’ingegno, dice un vecchio adagio.

Ed ecco, allora, che qualcuno pensò così: nel mare c’è tanta acqua salata, nell’Emilia hanno cibo e gli manca il sale. Ricaviamo il sale dall’acqua del mare, lo portiamo nell’Emilia e facciamo scambio della merce: a loro il prezioso sale a noi di che toglierci la fame!

Così fecero. Come altri spezzini, anche i Biassei si diedero da fare per ricavare il sale dal mare.

Con lamiere costruirono delle capaci vasche, non alte ma di grande superficie che riempivano di acqua marina e mantenendo il fuoco sotto, il calore faceva evaporare l’acqua e lasciava il sale.

Era un lavoro lungo e per lo più avveniva sulla spiaggia perché risultava più agevole trasportare il poco sale che l’acqua salata occorrente alla trasformazione.

Qualcuno ripiegava sulla seconda soluzione e trasportava l’acqua dentro i baisèi (barilotti di lamiera), costruiti appositamente oppure con i barili dove trasportavano il vino e salivano con il pesante fardello per i settecento gradini occorrenti per arrivare alle cantine e ricavare poi un pugno di sale.

D’altra parte chi ricavava il sale al mare era costretto a trasportarvi la legna occorrente per il fuoco. In un caso o nell’altro era una fatica improba.

Iniziarono con il tagliare i boschi più vicini al mare, poi i boschi di proprietà più lontane ed infine i boschi comunali. In poco tempo le alture intorno a Tramonti diventarono prive di alberi, trascinati a fatica nei luoghi di produzione del sale.

Il trasporto avveniva a spalla o trascinando e strisciando i tronchi per canaloni sino al mare. Non era certamente agevole scendere per quelle terribili discese, con gradini alti 50-60 centimetri e con pesi che superavano i 50 chilogrammi! Fatica ricompensata con qualche pugno di sale.

Ma tutto questo era poca cosa rispetto alla successiva fase per ottenere di che sfamarsi. Infatti, ottenuta una certa quantità di sale, si mettevano assieme più persone che con il loro sacchetto di sale partivano con un carro trasportato a mano per raggiungere la lontana Emilia per fare il baratto.

Erano viaggi lunghissimi attraverso pianure e montagne, nell’acqua e nella neve in inverno o nel caldo dell’estate, viaggi disagiati e pericolosi. Si dovevano spingere per i tornanti del Cerreto o della Cisa quei carretti costruiti artigianalmente, con i cerchioni di ferro, per strade dissestate dalla guerra, con i tedeschi che mal tolleravano questo traffico e che ogni tanto lasciavano partire qualche raffica di “parabellum”, con il rischio che qualcuno si impossessasse del carico, con l’ignoto davanti e la paura del ritorno e dopo giorni di fatica, fame e paura, dormendo nei casolari abbandonati, accanto al sacchetto del sale, arrivavano a destinazione con il carretto e il suo povero contenuto.

Reggio Emilia, Collagna, Parma, ... Lì sembrava che la guerra fosse lontana e la fame una disperazione mai provata.

Erano buoni gli emiliani e nel breve periodo che durava lo scambio delle merci, dividevano con gli stanchi e affamati biassei le loro pietanze e un letto per dormire.

Poi, caricato il carro di grano, farina, occorreva affrontare il ritorno, il duro ritorno. Con il carro carico era ancora più lento il cammino. Più faticose le salite tanto che a volte occorreva dividere il carico e fare due volte la stessa salita. Il pericolo di vedersi sequestrare la merce era sempre presente. Spesso erano costretti, per poter passare un blocco,a lasciare ai militari o ai partigiani un sacco di farina od altro.

Stremati dalla fatica, laceri, sporchi, arrivavano finalmente a Pegazzano.

Ormai si sentivano a casa e, anche se l’ultimo tratto di strada non era tra i più agevoli, si consolavano al pensiero che lassù c’era la famiglia che aspettava e, finalmente, per qualche tempo sarebbe sparito lo spettro della fame.

 

 

 

I delitti di “San Zane”


 

Nei paesi limitrofi e in città, Biassa era considerato un paese dove l’odio e le passioni la facevano da padrone. Ed era vero: odi che nascevano per semplici questioni di confine, servitù di passaggi, vendita di piccoli appezzamenti di terreni; ragioni di interessi e che facevano ingrassare gli avvocati. A volte questi odi davano il via a vere e proprie faide con reciproci dispetti e che talvolta sfociavano in tragedie.

S. Giovanni Battista era una solennità religiosa festeggiata a Biassa con grandi fuochi che venivano accesi in ogni quartiere. Ognuno di questi gruppi di case confinanti, aveva la sua aia, dove a luglio venivano trasportati i fasci di grano per essere “battuti”. La battitura era fatta con bastoni snodati e le donne separavano il grano dalle impurità con il vallo.

Su queste aie (àa Grande, àa de S. Rocu, àa du Deghiun, àa da Pinela, àa der Bale, àa de Zan, àa der Gropu), venivano accesi i fuochi.

La preparazione di questi fuochi era lunga e faticosa. Per diversi giorni giovani e ragazzi di ogni “contrada” andavano nei dintorni a raccogliere quanto più possibile legna di sottobosco, trascinare mucchi di rovi e tutto quanto potesse alimentare le fiamme

La sera del 24 giugno 1921, verso le undici di sera, mentre il paese di Biassa era ancora illuminato dai bagliori di questi fuochi e la gente si attardava più del solito fuori casa, uno di questi odi tra famiglie era prossimo a consumarsi in maniera tragica.

Un giovane di diciannove anni, Mario Lombardi di Domenico detto Zigaia, sembra per ragioni di gelosia ma certamente unite a motivi di screzio tra le due famiglie, inseguiva, per ucciderlo con una pistola, il suo coetaneo Orlando Carrodano detto Lintana.

Arrivati nei pressi di uno di questi fuochi, sull’“aa der Bale” al termine della scalinata di via dell’Ospedale, il Lombardi, sembra addirittura istigato ed aiutato dal padre Domenico, premeva ripetutamente il grilletto della pistola colpendo il Carrodano al lato destro del petto, ferendolo gravemente.

Su una terrazza prospiciente il fuoco, stavano alcune persone tra le quali una ragazza di diciannove anni, Alba Gianardi, che, vittima innocente, fu colpita al collo da uno dei colpi sparati dal Lombardi.

Tale era il trambusto che nessuno si accorse della giovane Alba, tanto che il padre Domenico, detto Già, era andato a soccorrere il Carrodano ferito ed anzi si era adoperato, assieme ad altri, a trasportarlo all’ospedale.

Al suo ritorno la tragica sorpresa della morte della figlia!

Mario Lombardo, dopo la sparatoria, si era dato alla fuga, ma sembra sia stato presto preso da alcuni dei suoi paesani a Tramonti e qui sia stato picchiato e seviziato a morte. Consegnato ai carabinieri e trasportato all’ospedale vi morirà la mattina del 26.

I giornali dell’epoca hanno dato un’altra versione dei fatti scrivendo che dopo l’arresto da parte dei carabinieri, il Lombardo mentre attraversava il paese di Biassa, ammanettato, fu colpito da un colpo di pistola sparato dalla folla che assisteva assiepata lungo la strada al suo passaggio e un anonimo giornalista retoricamente annotava: “E così finisce per l’uccisore della povera Gianardi la tragedia che a causa della sua sete di sangue funestò le alture di Biassa ridenti al mare ed al cielo con i pampini dorati e sussurranti al vento nelle brune fronde degli oliveti.”

 

 

 

Altri delitti


 

Chi sale da Pegazzano, a metà della scalinata tra casa Cuffini e Biassa, in località Begaina, troverà a margine della scalinata un cippo in ricordo di Salvatore Sommovigo di anni 26, qui assassinato nella prima mattinata del 10 aprile del 1922 mentre si recava al lavoro alla Spezia quale scaricatore di carbone.

Una rapida indagine del maresciallo Contro, comandante i carabinieri della suburbana di Biassa, individuò in Domenico Lombardi di anni venti, l’assassino. Anche qui ad armare le mani del Lombardi sembra sia stato l’odio tra le due famiglie.

Il Lombardi riuscì ad espatriare in Francia e lì restò sino alla prescrizione del reato.

Alcuni anni dopo, il 26 ottobre del 1926, un altro fatto di sangue colpì la famiglia del giovane Sommovigo ucciso nella Begaina.

Doveva essere un giorno come tanti altri: dopo una giornata di lavoro a Tramonti, Giovanni Gianardi di sessanta anni, cognato del Sommovigo, assieme al figlio Enrico e alla nipotina Olimpia Sommovigo, figlia dell’assassinato di quattro anni prima, di anni dieci, salivano da Schiara, dove il Gianardi aveva la cantina, per fare ritorno a Biassa.

Generalmente in quel periodo, nei campi di Tramonti, si potano le viti e si mettono a dimora le sementi di fave per poter raccogliere il frutto in anticipo, nel mese di aprile.

La partenza da Tramonti avveniva quando il sole, al tramonto si trovava all’altezza di “una canna” dall’orizzonte per arrivare a Biassa quando l’imbrunire colorava di scuro gli antichi muri scrostati delle case.

Erano i tempi in cui il fascismo armava le mani dei più esagitati e violenti: guai ad essere considerati rossi sovversivi ma guai anche ad avere motivi personali di astio nei loro confronti!

Quella sera, nella parte alta dell’Agreta, dopo la curva dove inizia il rettilineo che sale al Canpudònegu, l’agguato: tre persone poi individuate e successivamente processate e condannate, armati di pistola, spararono uccidendo Giovanni Gianardi e ferendo i due congiunti che erano con lui.

Il figlio Enrico, sebbene fosse ferito ad un occhio (che perderà) e al ventre riuscì a scappare e a sottrarsi così alla morte mentre la piccola Olimpia fu ferita da un proiettile alla gamba destra.

Uno dei tre partecipanti all’agguato, Giulio Natale, detto Giüla, squadrista della prima ora, si diede alla macchia e ricercato dai carabinieri per questo delitto, fu rintracciato al Mesco due anni dopo dove in un conflitto a fuoco rimase ucciso, riportando ben 12 ferite al petto: erano le 2,30 del 2 maggio 1928.

Dal Mesco, su un carro trainato da un cavallo fu trasportato a Biassa. Giunto a destinazione, sulla strada prospiciente il piazzale della chiesa, il cavallo cadde a terra, morto sul colpo.

 

 

 

La chiesa di S. Martino


 

Nel 1937 l’artigiano Eugenio Carro, detto Bigiola, della Spezia eseguì il restauro della chiesa di S. Martino nuovo di Biassa su progetto dell’ing. Antonio Raspolli Galletti, funzionario dei Lavori Pubblici del Comune della Spezia. Sovrintendeva invece i lavori di ordine artistico e archeologico il Prof. Ubaldo Formentini.

Parroco era Don Cesare Buonaventura Giannini, a Biassa dal 1927.

Questo prete era benvoluto dalla gente di Biassa. Chi lo ha conosciuto dice di lui che «era venuto con gli zoccoli ai piedi ed è andato via scalzo» come a indicare la sua onestà e povertà in un paese di poveri. Partì con la sorella (che viveva con lui) il 3 luglio 1946 per ritirarsi dalla vita ecclesiale in una casa di cura religiosa a Genova.

Ubaldo Formentini, autorevole studioso di cose spezzine, fa risalire la costruzione della chiesa di S. Martino nuovo alla fine del XV secolo quando furono aggiunte le attuali tre navate ad un più antico oratorio dedicato a S. Giacomo.

Le imprecisate datazioni sono dovute alla unicità della costruzione che non ha riscontri in alcun modello e che fa ritenere che, sia l’oratorio sia la successiva chiesa, siano opere d’arte popolare costruite dai tagliapietra locali e quindi difficilmente databili.

L’opera di ripristino di Eugenio Carro era tesa a riportare all’origine popolare la chiesa, togliendo i rimaneggiamenti dei secoli precedenti.

Infatti tolse l’intonaco alle sei possenti colonne riportandole all’originaria arenaria scalpellinata; scoprì nell’arcata dell’abside (che anticamente apparteneva all’oratorio) pietre affrescate con motivi floreali; riportò il tetto all’originaria semplicità.

Lo aiutava l’ancor giovane figlio Guglielmo che poi diventerà apprezzato Maestro di pittura e scultore. Già a quel tempo impreziosì la chiesa con due sue opere di scultura: “I Santi Quattro Incoronati” e “S. Enecone”.

Non si sa come sia giunto il culto di questi quattro santi scalpellini ma certamente furono adottati da una parte di quel popolo di scalpellini biassei operanti nelle cave del paese.

Già prima del ’900 la fabbriceria della chiesa di S. Martino era chiamata “dei Santi Quattro”.

La credenza cristiana racconta che Severino, Saveriano, Carpoforo e Vittorino, scalpellini cristiani in epoca romana, furono martirizzati per non aver voluto eseguire statue di deità pagane.

Carro ne fa un gruppo marmoreo che sarà esposto e premiato alla rassegna spezzina della mostra sindacale del 1936 e in seguito sistemata sull’altare di destra della chiesa di S. Martino.

Sempre di quel periodo è la statua di S. Enecone, abate dell’Abbazia di Burgos in Spagna.

 

 

 

Il pino


 

Il pino era lassù. Figlio legittimo, autoctono, della Liguria. Sfidava il libeccio che gli si ingolfava, violento, tra i rami facendolo gemere.

Piegava al suo passaggio la chioma, poi ritornava dritto e, audace, sfidava l’altra rafala.

Sotto di lui la frana, l’immensa frana che minacciosa avanzava impaurendo gli arditi contadini della Fossola che per prima cosa, al mattino, controllavano che il pino fosse sempre al suo posto, perché la sua presenza significava che la frana era in “sonno”.

Il Pinus pinaster era proprio al confine col ripido scoscendimento della frana: giù in basso sino ad un paio di anni fa c’era una graziosa spiaggetta, il Mainello, proprio di fianco a Punta Merlino con l’omonimo scoglio prospiciente. Ora un immenso cono di detriti l’ha sommersa e la fresca ferita sembra sia trattenuta all’apice dalle radici di questo pino indomito. Poco più sopra, le case della Fossola con la minuscola bianca chiesetta degli Angeli Custodi.

In altri tempi un polpo salvò Tellaro dalle incursioni moresche facendo suonare con i suoi tentacoli la campana della chiesa: sarà che oggi un vigoroso pino marittimo tenti di salvare la Fossola con i tentacoli delle sue radici? No, purtroppo. “Il pino si è abbassato di alcuni metri”, dicevano.

Povero pino!

Passa altro tempo.

“Si è inclinato verso il mare, segno che la frana è in movimento!, esclamavano addolorati i “Guardiani del pino”.

Resisti, pino!

Intanto, giù in basso, i marosi portavano via il materiale ai piedi della frana.

Per il pino era oramai questione di tempo: aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a fermare la frana.

«Addio fresca brezza del mattino, addio vento impetuoso che lasciavi attaccato ai miei rami il profumo della salsedine e portavi verso l’alto il solfureo polline che lasciavo andare al tuo contatto!»

Pensò sconsolato agli uccelli migratori che, stanchi,si posavano sui suoi rami; ai falchetti che giornalmente gli facevano visita; all’amico pettirosso che vedeva ridursi il suo territorio senza poter fare nulla.

Finché una mattina, quando arrivarono i guardiani del pino e lo cercarono con gli occhi, non lo videro più.

Era successo tutto nella notte tra il 6 ed il 7 gennaio 1997.

Un’altra porzione del territorio di Tramonti era sparita e il povero pino era rotolato per il ripido pendio assieme a grossi massi e terriccio.

Ciò che rimase di lui dopo tanto fracasso, finì tra le onde del mare in burrasca senza lasciare alcuna traccia di se.

 

 

 

Capea


 

L’arrivo dei missionari a Biassa era un avvenimento, per questo paese, nascosto dalle brume e dai castagni nell’ampia conca tra il monte Santa Croce e il monte Parodi. Era parroco del popoloso borgo Don Gianninie i tre missionari erano giunti a Biassa per dare il loro aiuto al prete di questa parrocchia per cercare di portare sulla retta via i fedeli in odore di peccato, vista la loro indole di attaccabrighe, i quali certamente non avrebbero porto l’altra guancia, seguendo gli insegnamenti della chiesa.

I ragazzi facevano a gara per andarsi a confessare da questi religiosi, poiché provavano vergogna ad andare a confessare i loro innocenti peccati a Don Giannini, che li conosceva bene.

Sebbene non fossero più i tempi bui dell’isolamento, Biassa era pur sempre considerata dai “foresti” (era per i Biassei “foresto” chi viveva al di fuori del paese) un paese retrogrado, di cui si raccontavano favole di ogni genere.

San Martin i sta chi ’n zima” dicevano quando volevano offendere il biasseo, alzando il pugno chiuso con l’indice ben steso ad indicare in modo significativo la provenienza montanara, ed identificando in San Martino (patrono di Biassa) il paese stesso.

Si era a ridosso della seconda Guerra Mondiale, e per i ragazzi di Biassa erano poche le possibilità di divertimento: su un lato della scuola esisteva una scarpata di terra compatta e argillosa adatta per gli scivoli. I ragazzi dopo averla resa scivolosa con provvide pisciate, rovinavano a valle accucciandosi su un piede e tenendo l’altra gamba stesa. Il più delle volte però, dato il precario equilibrio, a farne le spese era il loro fondoschiena, con relativo inzaccheramento dei pantaloni e successive botte dei genitori, che vedevano arrivare a casa i figli ridotti in pessime condizioni. Di fronte alla scuola passava la strada che conduceva ai forti Bramapane e Parodi per poi ricongiungersi con l’Aurelia alla Foce. Per un breve tratto subito dopo la scuola questa strada costeggiava il canale della Costa, così chiamato per il gruppo di case alle spalle della scuola su in alto: la Costa appunto.

Con la poca acqua che vi scorreva, che a quel tempo era abbastanza pulita, serviva ai ragazzi per costruirvi i “bozi” (laghetti) oppure ad un altro crudele passatempo: la cattura delle lucertole. Questo avveniva con piccoli e improvvisati “lazos” fatti con i “pavei” (lunghi fili d’erba): una volta riusciti a fare entrare la testa della lucertola nel cappio, un leggero strappo la imprigionava ed era quindi catturata. Ciò succedeva specialmente quando la lucertola si crogiolava al sole primaverile sulle pietre dei muri del canale ed era meritevole di ammirazione chi riusciva a catturarne il maggior numero.

I Padri erano venuti a Biassa nella ricorrenza delle feste pasquali e siccome secondo i precetti della chiesa e di Don Giannini occorreva “comunicarsi almeno una volta all’anno, a Pasqua”, nell’imminenza di questa festività era d’obbligo confessarsi per poter prendere la comunione. Sul lato sinistro della navata della chiesa di S. Martino, vi è un confessionale di legno scuro con una grata e un inginocchiatoio. L’entrata del confessionale era nascosta da una pesante tenda scura. Un ragazzo, Mario Natale, detto Capea, figlio di Ernesto di Barbeta, si avvicinò al confessionale alla vigilia di Pasqua e inginocchiatosi di fronte alla frata cominciò a confessarsi con il padre missionario che all’interno ascoltava gli innocenti peccati che il ragazzo snocciolava alle sue domande.

«Ho ammazzato delle “leciore” nel canale dell Costa», confessò ad un tratto. Lucertola in biasseo si traduce in “lesua”, da lui italianizzata in “leciora”.

Nel sentire questo peccato, che secondo il confessato contravveniva al quinto comandamento “non ammazzare”, il confessore si affacciò fuori dalla tenda che lo nascondeva, curioso di vedere chi fosse quel ragazzo che confessava quei “delitti”.

Il Padre aveva una folta barba nera e nero era il vestito che si intravedeva; Mario a quella vista sgranò tanto d’occhi e spaventato dalla improvvisa apparizione, scappò dalla chiesa gridando: “al diavolo! Al diavolo …!”

 

 

 

Il piccolo gabbiano


 

Mi piaceva approdare sulla “Roca da Gaiada”. A volte la raggiungevo a nuoto, a volte con una piccola barca a remi. Quel giorno arrivai allo scoglio con la barchetta che ormeggiai e, a fatica, traballando con i piedi nudi sulla roccia resa tagliente dal mare e irta di denti di cane, mi avviai verso la sommità dove ancora c’era la grande croce di marmo. Sul versante del mare aperto si può accedere alla croce seguendo un ripido sentiero appena tracciato. Sulla cima della roccia era stato creato un piccolo pianoro completato con dei mattoni. Salivo volentieri lassù, perché da quel punto si vede il mare azzurro e scintillante di luce argentata, creata dal rifrangersi dei raggi del sole. Verso terra invece le macchie scure degli scogli sommersi, il luccichio dei pesci che, intorno ai “becheti” (chiamati così per le punte che emergono dall’acqua) cercano cibo tra le cozze che ricoprono questi due scogli. Di fronte la costa: una parete che arriva sino al cielo e che sovrasta la spiaggia dei Cantun e la scogliera della Gaiada.

Il marmo bianco ricoperto di bianchi escrementi lasciati dai gabbiani, che amano sostare sulle braccia della croce. Pigramente se ne vanno mio arrivo. Una spruzzata di arido verde sul lato di levante dello scoglio e proprio ai miei piedi un batuffolo di cotone. Un piccolo gabbiano appena uscito dal nido, che mamma gabbiano aveva costruito sulla sommità della roccia.

Lo prendo tra le mani per accarezzarlo e lo accosto al petto, ma uno stridio acuto, improvviso nel silenzio, mi fa accapponare la pelle: alzo gli occhi e vedo un gabbiano volteggiare in alto sopra di me. Emette altre grida e accorrono altri gabbiani. Poso il piccolo per terra, ma altri gabbiani arrivano stridendo.

Sopra la mia testa, nel giro di pochi attimi, volteggiano decine di gabbiani con ampi giri, con stridii assordanti. Ho paura.

Calano in picchiata sopra di me quasi a volermi beccare. Scendo velocemente rischiando di ruzzolare. Mi accompagnano sino alla barca. Mano ai remi, fuggo dallo scoglio con i gabbiani vocianti sopra di me. Mi abbandonano finalmente a metà strada tra lo Scoglio Ferale e lo Scau, l’approdo di Schiara.

Giuro, non toccherò più un piccolo di gabbiano!

 

 

 

I trabocchetti


 

A causa dell’abbondanza di musculi, la “Roca da Gaiada” è sempre stata presa d’assalto, per raccogliere il pregiato mollusco, sia dagli abitanti di Tramonti sia di altre località, in special modo da quelli di Riomaggiore.

Con quelli di Riomaggiore, già da lungo tempo, i Biassei avevano il dente avvelenato.

Sino al secolo XIV, Riomaggiore era partecipe con Carpena e Biassa, alla stessa “Communitas” sul monte Verrugoli. La chiesa di San Martino Vecchio aveva tre porte: da una di queste accedevano i fedeli degli insediamenti da cui nascerà Riomaggiore; le altre due erano destinate ai Biassei e agli abitanti di Carpena. Come documento storico del profondo legame tra le due comunità, nella chiesa di S. Giovanni Battista a Riomaggiore, costruita intorno al 1340, è visibile ancora nel parapetto del pulpito, un bassorilievo raffigurante S. Martino, proveniente dall’antica chiesa sul Verrugoli.

Quando da Lemen, Zericò, Casinagora gli abitanti scesero al mare e alla foce del Rio Major, crearono l’attuale abitato di Riomaggiore, iniziarono le diatribe con Biassa su questioni di confine e di proprietà un tempo in comune oppure per interessi riguardanti le tasse da pagare su queste proprietà. Iniziò così un astio protrattosi sino ai nostri giorni.

A Tramonti i riomaggioresi arrivavano con i loro gozzi per raccogliere i muscoli sullo Scoglio Ferale, che poi utilizzavano sia come cibo, sia come esca per le nasse. Oltre ad essere viticoltori infaticabili erano anche abili pescatori, per cui si fermavano a pescare nel mare di Tramonti ricco di pesce, ma mal sopportati dai Biassei, venivano spesso cacciati a sassate, urla ed improperi. Al contrario i pescatori delle Grazie e di Porto Venere avevano instaurato con i Biassei un amichevole rapporto di piccoli scambi: in cambio di pesce fresco davano loro uva o qualche fiasco di vino. Nelle mattinate estive di mare piatto e nel silenzio assoluto del luogo, salivano in alto sino alle casette le brevi grida dei pescatori che annunciavano la loro disponibilità allo scambio. Lassù lo svelto raccogliere un po’ d’uva in un cavagno perché i primi ad arrivare erano i favoriti. Nel cesto che era servito per trasportare l’uva, ora c’era una quantità di pesce multicolore ancora vivo: saran, cardain, pessi de scoiu, scurpene…

Con quelli di Riomaggiore invece la chiusura era completa. Anche se nei racconti che correvano in città, gli abitanti di Biassa e Riomaggiore erano spesso accomunati come sempliciotti, creduloni, tra loro c’era sospetto, rivalità, rotte soltanto qualche anno dopo l’ultima guerra, quando molti Biassei hanno cominciato ad ammogliarsi con donne di quel paese: fino ad allora dispetti, maldicenze, specialmente da parte dei Biassei, talvolta cattiverie più serie. Sul versante di Biassa vi è un sentiero usato fino a poco tempo fa: quello di Vaisèla. Da Lemen, Zericò, Cravaezza di Riomaggiore, sino a poco tempo fa egregiamente coltivati a uva, partivano i contadini al mattino presto con i “cestin” colmi d’uva da tavola, per portarli al mercato alla Spezia. Salivano sino al Turiùn (Torrione) così chiamato perché sopra il valico un tempo esisteva una torre di avvistamento contro le incursioni moresche, trasformata poi in casa cantoniera demaniale detta “casa Carmè” dal nome dell’ultimo cantoniere che l’aveva abitata. Scendevano poi il sentiero di Vaisèla, attraversavano Biassa e giù, sempre a piedi, sino alla Spezia. Se ci arrivavano …

Sì, perché percorrere Vaisèla quando faceva ancora buio con i dispetti che gli facevano i “Biascèi”, come li chiamavano loro, poteva anche succedere che l’uva non arrivasse mai a destinazione e magari poteva capitare anche di fratturarsi una gamba!

La colpa era degli sc-ciapamati (trappole) che i Biassei preparavano sul sentiero.

Gli sc-ciapamati erano profonde buche fatte dove gli ignari contadini di Riomaggiore dovevano passare: un po’ di rametti sottili con sopra un poco di erba e foglie a coprire la buca: un piede posato lì sopra, un urlo e il cestino con l’uva ruzzolava per il ripido sentiero…!

 

 

 

Solidarietà a Biassa


 

Dopo la nascita delle Società di Mutuo Soccorso alla Spezia, anche a Biassa fu fondata la Pubblica Assistenza. Il 10 giugno 1919, 280 soci fondatori (185 uomini e 95 donne) crearono questa Associazione di Volontariato che ebbe tanta importanza nella vita sociale del paese. La solidarietà è sempre stato un sentimento che ha amalgamato i Biassei. I litigi, i rancori non hanno mai influito nei momenti di bisogno: sono sempre stati messi momentaneamente da parte, qualunque fosse stata la persona da aiutare.

D’altronde il numero elevato dei soci dimostra la volontà di solidarietà che li accomunava.

Erano gerarchicamente organizzati: puniti se non facevano il proprio dovere, multati se non partecipavano alle assemblee. Molti dei servizi venivano effettuati a Tramonti; allora dovevano partire a piedi con la lettiga, soccorrere il ferito o l’ammalato, portarlo a Biassa e, se necessario, trasportarlo all’ospedale civile, che allora si chiamava Vittorio Emanuele II, su un carro-lettiga trainato a mano.

Era un impegno gravoso e di molta fatica che in base alle difficoltà incontrate, comportava un punteggio di merito la cui somma, nell’occasione di feste sociali, dava diritto a medaglie e attestati di benemerenza. Le squadre, al comando di un responsabile capo squadra, si avvicendavano a turno ed erano particolarmente attive.

Il 15 agosto 1923 per trasportare all’ospedale a partorire Dusolina Mozzachiodi, prestarono servizio 27 soci. Per soccorrere Gio Batta Mariotti (Lalu) di Francesco, di 24 anni, “affetto da sbocco di sangue”, l’11 novembre 1923 erano presenti 33 militi. Nel servizio notturno a Gio Batta Sommovigo, detto Bacicia, il 2 dicembre 1923 si mobilitarono ben 77 persone.

45 persone trasportarono all’ospedale Adele Sommovigo di Venanzio, “affetta da nevrastenia”, mentre alla fine del 1924 per Mario Bertani fu GioBatta prestarono la loro opera 56 soci.

La vita interna della Società era regolata democraticamente con le votazioni una volta all’anno per eleggere il Consiglio Direttivo e i Capi Squadra.

I soci pagavano una quota mensile e dopo tre mesi di inadempienza venivano estromessi dalla società. Una commissione di disciplina formata da sei soci era destinata a fare rispettare lo statuto che regolava la società e chi non si adeguava era sottoposto a multe, sospensioni o degradazioni. Ogni anno, alla fine di settembre, a Tramonti veniva fatta la questua per la raccolta dell’uva, di cui una parte veniva venduta sul posto e la migliore veniva inviata gratuitamente all’ospedale. Prendendo ad esempio un anno qualsiasi: nella riunione del Consiglio del 7.10.1926, il Presidente Domenico Bertani (Baciò), rendeva noto che a Schiara erano stati raccolti 136 kg di uva e venduti sul posto a lire 2,05 il kg. Alla Fossola 48 kg subito venduti e altri 60 inviati all’ospedale. A Monesteroli ne era stata donata 36 kg e al Persico 25 kg.

La prima festa da ballo a Biassa era stata organizzata dalla Pubblica Assistenza il 27 marzo 1927; queste feste continuarono nei giorni festivi sino al 12 luglio dello stesso anno quando l’assemblea della società decideva di chiudere la sala da ballo a causa dei continui litigi e scenate di gelosia. In seguito, malgrado gli sforzi fatti per riproporre il ballo, le autorità non concessero più il nullaosta per motivi di ordine pubblico.

Si riprenderà a ballare dopo la fine della guerra quando addirittura si costituirà un Comitato Divertimenti con lo scopo di organizzare feste da ballo, utili anche per finanziare le varie organizzazioni presenti in paese.

Nel 1929 veniva intanto acquistato il terreno su cui costruire il fabbricato della sede sociale che sarà completato nel 1931.

Il regime fascista sino al 1930, non si era quasi mai intromesso nelle questioni interne della Pubblica Assistenza di Biassa ed era sempre stata rispettata la regola democratica di fare eleggere con votazione dei soci il direttivo. Nella assemblea generale del 18 gennaio 1930 viene presentata invece una lista di nomi proposti dal P.N.F. provinciale. Eletta la lista e “a questo punto l’assemblea scatta in piedi al completo e con un solo grido: approviamo la seguente lista senza votazioni! Il nuovo presidente commosso per l’accoglienza ricevuta, ringrazia a nome del fascismo tutta l’assemblea dichiarando che compierà fascisticamente la sua opera di sacrificio e di dovere per il bene della Società, della Patria, del Regime.” Da quel momento il presidente e il consiglio rimarranno legati al regime fino alla sua caduta.

Intanto con il Regio Decreto del 15 dicembre 1930 venivano sciolte le associazioni di Pubblica Assistenza e tutte le proprietà venivano incorporate nella Croce Rossa Italiana. La nuova sede la cui costruzione era iniziata da poco, viene così tolta alla popolazione di Biassa che con abnegazione aveva finanziato l’opera a cui teneva tanto.

A questo punto venne meno anche l’attaccamento alla C.R.I. ripreso pienamente nel dopoguerra, sino agli anni ’50 quando parve a molti che la democrazia fosse nuovamente calpestata. Infatti il Presidente (o Delegato) della locale C.R.I. venne imposto dal comitato Provinciale e non eletto dai soci.

Comparando i servizi svolti dai militi in diversi periodi si può vedere come le decisioni prese estromettendo i soci, abbiano avuto serie ripercussioni sul volontariato.

Nel 1923 furono fatti 20 servizi con 451 presenze dei soci, nel 1924, 19 servizi con 502 presenze dei soci, nel 1939, 14 servizi con 54 presenze dei soci, nel 1940, 8 servizi con 61 presenze dei soci, nel 1945, 35 servizi con 560 presenze dei soci, nel 1946 28 servizi con 455 presenze dei soci.

Il fascismo si era talmente appropriato dei mezzi di volontariato, che anche le sedi periferiche della C.R.I. erano diventate strumento di propaganda e la loro esistenza era legata alle direttive emanate direttamente dal Comitato Centrale della C.R.I.. Direttive del regime che facevano naufragare nella burocrazia quegli ideali di solidarietà, che all’inizio avevano unito i biassei nella Pubblica Assistenza.

Addirittura in pieno periodo di guerra, dopo la “donazione” delle fedi d’oro alla Patria sostituite con fedi di ferro, dopo la requisizione dei monumenti in bronzo di cui fece le spese anche Biassa che si vedrà portare via il nudo guerriero romano dal piedistallo in arenaria, opera di Angelo Del Santo, una direttiva del Presidente Generale della C.R.I. partita direttamente da Roma il 27 gennaio 1943, vista la circolare del Consiglio dei Ministri, chiedeva alla C.R.I. di Biassa di disporre la “rimozione e sostituzione di tutte le maniglie, pomi e targhe di rame e tutte le sue leghe … Questa associazione … deve essere in grado di conoscere il numero e il peso e le dimensioni di ciascun tipo di maniglia, pomo o targa …” Il Sottosegretario di stato per le fabbricazioni di Guerra metterà a disposizione per la sostituzione, “materiali autarchici ferro ed eccezionalmente con la lega Zama…” Dove eravamo scesi…!

 

 

 

Superstizioni e metodi empirici

 

Fino a una cinquantina di anni fa la gente di Biassa ricorreva alle medicine ufficiali soltanto in caso di estremo bisogno.

Prima di chiamare il medico ricorrevano ad espedienti e metodi empirici tramandati da generazioni, magari affidandosi a presunti guaritori del paese. L’ignoranza che era propria della maggior parte dei biassei, portava a credere che la causa di una malattia era dovuta al “malocchio”, cioè a malefìci e incantesimi procurati da persone che volevano fare del male. Le persone “cattive” a cui si rivolgevano per queste malefatte erano le strie, streghe. Per fortuna vi erano altre “strie” buone che contrastavano il male con altri sortilegi e “guarivano” chi era stato contaminato dagli spiriti maligni, talvolta rimandando al mittente la fattura.

Per togliere il malocchio, la stria buona poneva sopra la testa della persona da guarire un piatto contenente acqua. Da un lume acceso, con il dito faceva cadere una goccia di olio nell’acqua e se questo si spandeva in larghe spire, era il segno che la malattia era provocata da incantesimo. Accertato ciò, dopo il segno della croce si pronunciava più volte la formula:

O tréi persune da santissima Trinità, levé ’r mau e meteghe a sanità”. (“O tre persone della santissima Trinità, togliete il male e metteteci la salute”)

Vi erano “specialisti” per ogni tipo di malattia: alcune guarivano “r mau der pètu”, bronchiti; altre “mau der grüpu” che colpiva i bambini affetti da vermi intestinali che talvolta portavano al loro soffocamento ed era una malattia molto diffusa vista la scarsità di igiene esistente; “’r mau da pietra” era invece la prostatite.

Era maggiormente colpito da influssi maligni chi aveva “il sangue meno forte” mentre una persona vigorosa era inattaccabile.

Per rendere meno vulnerabili i bambini, venivano legati al loro collo spicchi di aglio posti dentro un sacchetto di tela, quali amuleti che avrebbero dovuto tenere lontano il maligno che le “strie” potevano trasmettere con lo sguardo e con il semplice tocco della mano. Erano inoltre indicate ai bambini le probabili streghe in modo che il loro eventuale malefico incontro potesse essere neutralizzato sia dagli amuleti, sia da scongiuri, fatti imparare a memoria, detti sottovoce oppure da opportuni incroci delle dita delle mani. Le malcapitate che incorrevano in tale fama erano segnate a dito ed isolate dalla ossessiva superstizione dei biassei.

Di esse se ne parlava sottovoce per paura di incorrere nelle loro maledizioni e la paura era tanta che spesso, anche senza motivo, ricorrevano alla “magia buona” per contrastare eventuali malefìci. Le guaritrici erano molto ricercate e facevano il loro lavoro gratuitamente, soltanto in cambio di molta gratitudine.

A cosa fosse dovuta questa loro presunta facoltà non è dato sapere, però essendo la loro opera molto richiesta è da presumere che la credenza popolare nella loro facoltà di guarigione fosse molto radicata.

La Netina, per il fatto di avere avuto due gemelli, anche se purtroppo nati morti, era stata predestinata alla guarigione dei dolori addominali. Faceva stendere l’ammalato per terra: era essenziale che il luogo fosse all’incrocio di tre strade, ventre in basso, la testa rivolta verso nord e la Netina scalza passava per due volte sul corpo steso ponendo il piede dove era il dolore, bisbigliando frasi di rito.

Fortuna che la Netina era una donna minuta!

Si poteva anche guarire con il “fai da te”.

Per guarire l’orzaiolo occorreva recarsi in un punto dove si poteva vedere il mare, generalmente sul Gobu e con la schiena rivolta verso il golfo ripetere la formula:

A vedu u celu a ne vedu ’r mae, vista ciàa e purpu ’n mae” e nello stesso tempo buttare per tre volte all’indietro una pietra. La frase recitava: “Vedo il cielo non vedo il mare, vista chiara e polpo in mare”, dove il polpo era l’orzaiolo.

Oltre a una forte credenza nel magico, il biasseo adoperava metodi empirici per la cura delle sue malattie. Contro i vermi usava l’aglio e la ruta che abbonda a Tramonti. Contro l’insonnia dei più piccoli, oltre alla camomilla selvatica, usava una alga raccolta nel mare di Tramonti, da loro chiamata “culaina”, (Corallina officinalis) fatta seccare e poi usata in infusione nell’acqua bollente. Contro il mal di testa adoperavano una carta speciale “’r papeu matu” inzuppato d’aceto e posto sulla fronte. Questa carta, grigia, adoperata per tappare la “spina” delle botti, era usata in commercio per contenere lo zucchero che veniva venduto sfuso.

Per guarire in fretta piccole ferite, veniva raschiato dalle travi dei tetti delle case, o dei solai, un poco di marciume del legno e lo si metteva sulla ferita. Naturalmente dopo averla disinfettata con aceto, o in mancanza, con urina fresca (di vergine, possibilmente!).

 

 

 

Le “Dodici parole della verità”

 

È ormai difficile ascoltare dalla voce dei vecchi biassei le favole che essi stessi avevano imparato dalla voce dei loro genitori o nonni, come questi avevano imparato a loro volta dai nonni e così via a ritroso nella notte dei tempi. Racconti intrisi di misticismo religioso o favole evocanti maghe, fate e orchi.

D’altronde quello di imparare poesie dialettali, racconti, ninne nanne era un obbligo per poter intrattenere, una volta diventati adulti, altri bimbi e perpetuare così questa tradizione orale.

Poi è venuta la televisione…

Alcuni di questi racconti sono comuni ad altre località, dei quali mantengono soltanto una somiglianza, talmente sono stati trasformati dalla fantasia dei biassei.

Ad esempio nella leggenda, comune a tutta la Lunigiana, delle “Dodici parole della verità”, nella tradizione di Biassa, la parte finale è una sequenza di ripetizioni la cui assonanza e ritmo la rendono musicale.

La leggenda narra della venuta del diavolo nella casa di un ex povero contadino a reclamare l’accordo stipulato alcuni anni prima, quando lo aveva aiutato con un sacchetto di monete d’oro. Se non avesse saputo le “dodici parole della verità”, avrebbe, in cambio della ricchezza, presa la sua anima.

Trascorso il periodo pattuito, qualcun’altro aveva preso il posto del contadino. Vi fu un dialogo serrato tra il diavolo, fuori della porta a bussare e chiedere conto dell’accordo, e il sant’uomo che si trovava all’interno al posto del padrone di casa.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le una.

- Un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le due.

- Due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le tre.

- Tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le quattro.

- I quattro Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le cinque.

- Cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le sei.

- Sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le sette.

- Sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le otto.

- Otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo Regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le nove.

- Nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le dieci.

- Dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

-Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le undici.

- Undicimila verginelle, dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosé, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo Regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia?

- Amici, amici son le dodici.

- Dodici gli Apostoli del Signore, undicimila verginelle, dieci i Comandamenti del Signore, nove i cori degli angeli, otto i libri di Mosè, sette le lampade di Betlemme, sei le strade che vanno a Gerusalemme, cinque le piaghe del Signore, quattro gli Evangelisti, tre sono i Profeti, due i Testamenti Vecchi, un solo Gesù Cristo, in casa Emanuele, evviva questo regno e sempre sia laudà.

- Ton, ton. - Chi picchia.

- Amici, amici son le tredici.

- Cun i duze a t’ò pagà, vatene via che t’èi adanà. (Con i dodici ti ho pagato, vattene che sei dannato).

- San Barturmé, san Barturmé, a n’ò mai pussü fae na büganeta che ’n te g’ài missu a te pezzeta! (San Bartolomeo, San Bartolomeo, non ho mai potuto fare un piccolo bucato che tu non gli abbia messo una piccola pezza!).

 

Si dice che chi sa le “Dodici parole della verità” e chi le sta a sentire, di una brutta morte non potrà morire.

 

(Testimonianza di Ada Natale, classe 1914. Imparata dalla mamma Alcida Gianardi, nata nel 1881. Ada assicura che alla mamma gliela aveva insegnata sua mamma…)

 

 

 

Forti e soldati

 

La vista che offre il golfo della Spezia dalle alture intorno a Biassa è uno spettacolo maestoso ed è qui che sono stati costruiti alcuni dei forti in difesa della città e dell’Arsenale.

L’Arsenale, voluto dal Cavour, progettato e costruito sotto la direzione di Domenico Chiodo, fu inaugurato nell’agosto del 1869.

Il generale pensò bene di fortificare le alture intorno alla città per difenderla da eventuali attacchi dal mare e di costruire le nuove mura di cinta per preservarla da attacchi terrestri.

Dopo l’Arsenale, sempre nella seconda metà dell’Ottocento furono costruiti, nei dintorni di Biassa, il forte Bramapane e il forte Parodi dal nome delle alture occupate, ambedue sui 700 metri di altezza.

Nella costruzione dei forti, i bravi scalpellini delle cave di Biassa profusero la loro opera traendo dalla pietra di arenaria e calcarea vere e proprie opere d’arte, purtroppo in gran parte oggi andate distrutte.

Il lavoro era talmente tanto che aveva fatto accorrere mano d’opera da regioni molto lontane.

Anche le strade che dalla Spezia salivano ai forti erano state fonte di lavoro perché molte erano le opere murarie di contenimento della strada e impegnativo l’approntamento della pavimentazione stradale.

Sul bordo della costruenda strada, con i carri, venivano accumulati mucchi di pietra calcarea e gli operai con mazze e mazzuoli dovevano spaccare quella pietra, con formato più o meno piccolo secondo l’impiego della ghiaia.

I forti furono utilizzati sino alla fine della seconda guerra, anzi, allo scoppio della guerra, per proteggere maggiormente l’Arsenale e le altre opere militari della Spezia, furono fortificate altre alture che avrebbero dovuto contrastare le incursioni aeree nemiche.

Queste batterie antiaeree sorsero innumerevoli intorno alla Spezia e sul territorio di Biassa ne furono costruite una sul monte Santa Croce (540 m.s.l.), una a Monte Madonna (520 m.s.l.) e una sul Verrugoli (740 m.s.l.)

Le fortificazioni richiamarono, per le loro esigenze operative, molti militari, dapprima soltanto italiani, poi anche tedeschi.

I Biassei, chiusi nella loro indole introversa, non vedevano di buon occhio queste intrusioni di estranei con i quali erano obbligati a convivere, vista la vicinanza al paese delle fortificazioni, per cui succedevano spesso liti tra i giovani di Biassa e i militari.

Malgrado questo, si erano instaurati anche rapporti di amicizia tanto che vi furono anche alcuni matrimoni tra i militari e le donne di Biassa. Sul piano commerciale, poi, erano i biassei che rifornivano di acqua potabile e di vino i soldati del Bramapane e di Monte Madonna.

Vista la riottosità degli autoctoni, i comandi militari dei forti limitavano ai soldati le libere uscite a Biassa e ai nuovi venuti raccomandavano di non allacciare rapporti con questa gente selvatica e ombrosa.

Si racconta che agli inizi di questo secolo, un giovane sottufficiale, a cavallo, si recasse al forte Bramapane, passando da Biassa, per prendere servizio.

Arrivato all’inizio del paese dovette fermarsi per un bisogno corporale. Non vide nessuno nelle vicinanze per cui, legato il cavallo sul margine delle strada, entrò in un canale dove le alte e verdi piante erano ideali per nasconderlo alla vista di eventuali passanti. Il luogo dove si recava era già stato usato da altri perché trovò un passaggio in mezzo all’erba alta.

Mal gliene incolse alla fine, quando, non avendo carta, prese alcune foglie delle piante a lui vicino e se ne servì come carta igienica.

Al contatto di queste foglie con le parti intime, sentì un bruciore come di fuoco.

«Mi hanno avvisato di stare lontano dalla gente di questo paese» esclamò «ma qui è cattiva anche l’erba…»

Si era pulito con l’ortica.

 

 

 

Il partigiano Mario

 

Dopo l’8 settembre 1943, sbandati militari e giovani antifascisti si rifugiarono sui monti, dando inizio a formazioni partigiane.

Con l’aiuto dei ricostituiti partiti democratici, si organizzarono in unità combattenti per attaccare i nemici con improvvise sortite.

 Per rintuzzare questo genere di guerriglia, i tedeschi e i fascisti organizzarono feroci rastrellamenti, che tenevano in costante allarme i partigiani.

Vista la mobilità dei raggruppamenti partigiani e per favorire il reclutamento di nuovi patrioti, il comando aveva costituito gruppi di “staffette” che avevano il compito di prendere in consegna le nuove forze per accompagnarle ai distaccamenti.

A Biassa, Mario Carrodano (Peota) era stato incaricato di accompagnare alcuni giovani del paese ai “Casoni” dove la formazione partigiana “Giustizia e Libertà” al comando di Ermanno Gindoli, stava riorganizzandosi dopo i continui rastrellamenti.

Il gruppo, giunto al fiume Vara nei pressi di Cavanella, mentre lo attraversava, fu intercettato dai tedeschi che, dopo l’alt, visto che questo non si fermava, cominciarono a sparare. Un partigiano di Marola, aggregato al gruppo di Biassa, rimase ucciso mentre Mario Carrodano, omonimo del “Peota”, fu ferito alla spalla destra.

Riuscirono tuttavia a fuggire e raggiunsero Garbugliaga, un gruppo di case di contadini nel comune di Rocchetta Vara, dove trovarono ospitalità nella casa della famiglia Gregori.

In quelle condizioni il Carrodano ferito non poteva certamente affrontare il viaggio per il campo partigiano. I tedeschi, dopo la sparatoria della sera precedente, avrebbero sicuramente ricercato il gruppo che con un ferito rischiavano di rimanere intrappolati.

Il Carrodano, come molti altri giovani, era stato incorporato nel gruppo di lavoro di Biassa della TODT tedesca che stava costruendo con piccone e pala la strada sterrata che doveva collegare Campiglia con il Telegrafo per consentire un rapido ripiegamento alle truppe tedesche operanti nelle zone fortificate di Campiglia. Grazie a questo lavoro, era in possesso del tesserino rilasciato dal comando tedesco per cui suggerì ai suoi compagni di essere lasciato in quella casa dove avrebbe ricevuto le cure necessarie. Nel caso i tedeschi lo avessero trovato, avrebbe loro mostrato il tesserino ed era probabile che, trovata una scusa per il fatto di trovarsi lontano da casa, i tedeschi lo avrebbero lasciato tranquillo. Era inoltre reduce da oltre otto anni di servizio militare in marina dove si era guadagnato una croce al valore ed anche quello era un fatto di cui avrebbero senz’altro tenuto conto.

Sebbene a malincuore, gli altri partirono per la loro destinazione.

Intanto i tedeschi erano sulle tracce del ferito e lo trovarono in quella casa curato dalla famiglia Gregori.

Alla vista del tesserino della TODT non infierirono più di tanto sul Carrodano, restando però d’accordo che appena fosse in grado di camminare, avrebbe dovuto presentarsi al comando militare tedesco.

Sfortuna volle che la presenza del partigiano ferito fosse risaputa anche dai fascisti della Decima che al comando di un giovane tenente, Gonnella, si recarono anch’essi a Garbugliaga e senza nemmeno curarsi né del precedente accordo fatto con i tedeschi, né dello stato del ferito, lo condussero fuori sull’aia di casa.

Lì il comandante della Decima, sordo a qualsiasi supplica, intimò al Carrodano di volgere per l’ultima volta lo sguardo in direzione di Biassa e lo uccise di propria mano con la pistola.

Era l’8 ottobre 1944, la vita che gli era stata risparmiata dal nemico tedesco, gli fu tolta da un italiano!

Il Gregori, che di professione faceva il falegname, costruì una rozza cassa dove ricomporre i poveri resti del Carrodano che fu poi tumulato da un gruppo di partigiani a Tavarone.

Alla fine della guerra venne portato a Biassa dove riposa nel cimitero locale.

Amara sorte toccò ad un altro giovane partigiano di Biassa, Domenico Carro. Giovanissimo, ad appena diciassette anni, essendo nato il 28 giugno 1926, prese la via dei monti, tra i primi ad aderire alle formazioni partigiane. Dopo varie vicissitudini, riuscì ad arruolarsi nelle Brigate Nere del 21° Fanteria.

Fu scoperto a minare la caserma con l’intento di farla saltare. Per questo il 4 aprile 1945 sarà fucilato non ancora diciannovenne.

 

 

 

L’albero della libertà

 

È ancora viva la memoria di un tempo lontano, quando i francesi, dopo la Rivoluzione, vennero in Italia accolti da molti come portatori di ideali nuovi che parlavano di Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Erano parole, queste, che fecero breccia nei cuori degli umili, stanchi di privazioni e soprusi. A Biassa, essi si erano accampati nelle zone pianeggianti di Nozzano, del Campodonico e del Francanese: toponimi che suonano in modo strano, lasciati apposta dai francesi per ricordare la loro sosta in quei luoghi.

Altro ricordo, questo più visibile, è la fresca fontana, da loro costruita nella loro permanenza, denominata di Napoleone, o di Nozzano. I francesi erano benvisti dai biassei, non si sa se per merito della fontana o dei nuovi ideali. Infatti si ricorda ancora, sempre attraverso la memoria orale, che alcuni biassei si arruolarono nel loro esercito e fecero la campagna di Russia dove, raccontarono gli scampati, i fiumi erano tinti di rosso per il sangue versato e che talvolta per attraversare un fiume usavano i corpi dei morti ammucchiati sul greto come di ponti.

Lasciarono, i francesi, oltre ai tanti francesismi di cui è ricca la nostra parlata, anche strane usanze, come l’albero della libertà.

A Biassa l’albero della libertà venne piantato sulla piazza antistante la chiesa di S. Martino. La leggenda narra che questa pianta venne amorevolmente coltivata con letame di stalla per farla crescere con la massima vigoria.

Quando la pianta fu ben sviluppata, fu posto sul ramo più alto un berretto rosso simile a quello portato dai Biassei che era fatto di lana e di cui una estremità ricadeva sulla spalla.

A guardia dell’albero era un popolano armato di fucile che ad ognuno che passava nei pressi, rivolgeva una domanda: «Chi viva?».

Se il passante rispondeva: «Viva Gesù Cristo e la Madonna», veniva subito fucilato. Se invece gridava : «Viva la libertà», era trattato da amico e festeggiato.

Un giorno che un facoltoso biasseo ebbe l’ardire di sparare sul berretto, il guardiano ed i suoi amici gli si rivoltarono contro con i fucili spianati e ci volle del bello e del buono per farli recedere dalle loro intenzioni.

Probabilmente questa è una leggenda messa in giro da ambienti ostili per mostrare quanto poco contasse la religione per i seguaci della Rivoluzione francese.

È giunta fino a noi una versione più colorita della leggenda dell’albero della libertà. Il guardiano del berretto rivolgendosi al passante gli avrebbe comandato di salutare il berretto rosso pena … «Merda o berretta rossa!».

Naturalmente il malcapitato optava per la berretta rossa!

Si dice ancora adesso a chi, costrettovi, non può fare altro che scegliere il male minore, anche se a malincuore.

 

 

 

E Biasèe

 

È tradizione considerare i due personaggi Batistun e a Maìa come provenienti dall’antica collettività di Biassa e usati alla Spezia come maschere carnevalesche fin dalla seconda metà del secolo scorso.

Questi personaggi, legati ai costumi tradizionali di Biassa erano forse considerati i più “veri” dell’intero circondario della Spezia, se, nella confusione dei costumi e usanze presenti nella città in espansione, per non dimenticare le proprie origini, li aveva eletti a rappresentarla.

D’altronde ancora oggi gli antichi costumi dei biassei, nel Museo Civico “U. Formentini”, vestono Batistun e a Maìa.

Pure Angiolo Del Santo, agli inizi del secolo, ritrarrà due persone biassee nei costumi di Batistun e a Maìa.

Anche nella seguente canzonetta senza data, scritta per i festeggiamenti di uno dei carnevali, la protagonista è la Maìa, come quella di Batistun e come tante altre Maìe che in ogni epoca hanno trascorso la loro vita a Biassa e Tramonti senza chiedersi tanti perché. I perché ce li chiediamo noi, ma non a tutti sappiamo dare risposta.

Una canzone scritta con simpatia verso Biassa e i Biassei mettendo in ridicolo i “lechin” spezzini.

 

 

E Biasèe.

 

En te sta Biassa benedetta mia en po’

En te sta Biassa benedetta mia en po’

 

La ghe er vin bon,

En baiocco en ta borsetta

Se fa presto colassion

 

En te sta Biassa benedetta mia en po’

 

La ghé l’aia rafinà

A vedutta de a sità

E formageta a bon mercà

 

En te sta Biassa benedetta ecc.

 

Marmenà e dispresà

Pe a gente che ghe sta

Che la ne len civilisà.

En te sta Spesa en po’ sivetta, e si, e si

 

La ghe de a gente sbarbagiana

D’ignoanti a volontà

En to sparlae dee nostre cà.

 

perché a Biassa en ta montagna mia en po’

 

La ghe ciù educassion

Parlando propio de ocasion:

De sta Spesa en ribilion

 

A Biassa, poi en ta montagna, e si, e si

 

La ghe dee done ben ciantà,

Petto gonfio remarcà;

E e gambe aretondà;

Senza confronto con cuelle de a Sità

 

Le a Maia che la o racconta, ne veo e si

 

I sen misi a gridae;

En ter vedene à passae!

Ca ne savemo caminae.

 

Oh! che Spesa birbaciona e si, e si,

 

Con na fuia sgangheà,

En meso a noi ien passà,

E a Maia per terra ian butà.

 

A semo noi ca lo disemo, e si, e si.

 

Se le questa educasion

De ciapae anca a spinton;

vegnì a Biassa vegnì ampaae:

A manea de trattae.

 

B. E.

 

 

Le Biassée

 

In questa Biassa benedetta guarda un po

In questa Biassa benedetta guarda un po

 

C’è il vino buono,

con qualche soldo in borsa

si fa presto colazione

 

In questa Biassa benedetta guarda un po

 

C’è l’aria buona,

la vista della città

e pecorino a buon mercato

 

In questa Biassa benedetta ecc.

 

Maltrattata e disprezzata,

la gente che vi abita

è accusata di non essere civilizzata.

In questa Spezia un po civetta, si, si

 

C’è gente chiacchierona,

ignoranti a volontà

che sparlano di noi.

 

perché a Biassa, nella montagna guarda un po

 

C’è più educazione,

parlandone proprio per l’occasione,

che in questa Spezia ribelle.

 

A Biassa, poi, nella montagna, si, si

 

Ci sono donne ben portanti,

con petto gonfio rimarcato

e con gambe rotonde

senza confronto con quelle della città.

 

È la Maria che lo racconta, è vero, si

 

si son messi a gridare,

vedendoci passare,

che non sappiamo camminare.

 

Oh! che Spezia birbona, si, si

 

con una furia sgarbata,

sono passati in mezzo a noi

e hanno buttato la Maria per terra

 

Siamo noi che lo diciamo, si, si.

 

Se questa è educazione

di prendere a spintoni,

venite a Biassa, venite a imparare

le belle maniere.

 

B.E.

 

 

 

Le patate biassee

 

Il 9 agosto 1944 alla vigilia di s. Lorenzo un rastrellamento operato dai tedeschi nelle Cinque Terre portò al fermo di oltre duecento persone che furono rinchiuse nel forte Bramapane.

Durante la guerra, per sfuggire ai bombardamenti anglo-americani effettuati sulla piazzaforte spezzina, molti cittadini e abitanti dei dintorni si trasferirono lontano dalla città per sfuggire alle bombe che, spesso sbagliando gli obiettivi militari, cadevano sulle abitazioni civili causando morti e feriti.

Molte di queste persone si riversarono in Riviera credendo di essere al sicuro dalle bombe e se ciò in parte era vero, gli uomini in grado di lavorare dovevano restare nascosti per non essere fatti prigionieri dai tedeschi e fascisti nei ricorrenti rastrellamenti.

Anche a Biassa vi fu un massiccio esodo di “sfollati” data la vicinanza del paese a obiettivi militari quali i forti e l’Arsenale. Spesso, infatti, le bombe lasciate cadere dagli aerei, finivano nei boschi intorno al paese e per fortuna soltanto raramente fecero danni alle abitazioni. Nel bombardamento del 14 aprile del 1943 fu però colpita la località “Scoglio” provocando il crollo di alcune case, senza fare morti.

Molte famiglie di Biassa trovarono rifugio a Riomaggiore, a San Bernardino sopra Corniglia, a Vernazza e in altri paesi della Riviera.

Quel 9 agosto, la retata dei tedeschi fu consistente e molti giovani e meno giovani furono portati nel forte e lasciati senza cibo e acqua sotto il sole d’agosto.

Venuta a conoscenza del fatto, la gente di Biassa mise subito in moto un meccanismo che per quei tempi era un lusso: la solidarietà.

Il cibo era scarso e quel poco che avevano era appena sufficiente a sopravvivere. Malgrado la paura che avevano addosso, i biassei riuscivano però a coltivare qualche campo e avevano da poco raccolto quelle scarse patate coltivate e che dovevano servire a sfamare la famiglia nel poco roseo avvenire.

Soltanto le donne circolavano in paese perché gli uomini, impauriti, erano nascosti per non correre pericoli con i tedeschi.

Quando le donne seppero dei prigionieri affamati nel forte Bramapane, si mobilitarono e in poco tempo nella cucina dell’asilo gestito da alcune suore, arrivarono le patate.

La cuoca, una religiosa di Corniglia, suor Germana, aiutata dalle donne di Biassa, bollirono tutte le patate raccolte nella cucine dell’asilo e, poste nelle ceste, si recarono tutte insieme al forte, a piedi salendo da Code, assieme ad altre che nel frattempo avevano provveduto a riempire alcune damigiane di acqua potabile.

Per fortuna i militari, sia italiani sia tedeschi, forse colpiti da tale solidarietà, permisero ad esse di fare la distribuzione delle patate ai prigionieri esausti.

Anche se le patate bollite (senza sale perché scarseggiava anche quello) non si possono considerare un cibo raffinato, per quei poveracci dovettero sembrare la manna che era caduta dal cielo agli ebrei nella loro fuga dall’Egitto. Furono talmente gradite che il dottor Niccolò Canepa, oculista, uno dei prigionieri di Bramapane, che a Liberazione avvenuta riaprì il proprio studio in corso Cavour, per tutto il periodo che ha esercitato la professione, ha sempre tenuto aperto il suo ambulatorio ai biassei, visitandoli gratuitamente, memore della solidarietà ricevuta dalle donne di Biassa.

 

 

 

Lo “sciopero alla rovescia”

 

Fino agli inizi degli anni cinquanta, Biassa era servita da una strada carrozzabile malagevole con curve che impedivano il transito ai mezzi della nuova tecnologia.

Questa strada era stata costruita a servizio dei forti sovrastanti Biassa e in tempi in cui i mezzi di locomozione erano a traino animale. Successivamente, con i nuovi mezzi a trazione a motore, la strada era diventata inadeguata per questo tipo di traffico. I rari mezzi che arrivavano a Biassa erano costretti a estenuanti manovre con il pericolo di finire fuori strada.

Fu soltanto nel 1953 che la prima corriera pubblica arrivò a “Casa Cuffini” poco dopo le Fornaci di Biassa. Fu un grande successo anche se poi occorreva percorrere ancora un lungo tratto a piedi per raggiungere il paese. Questo avvenimento ha alle spalle un fatto determinante.

La disoccupazione a quei tempi era una piaga sociale di non facile soluzione. La Piazza del Monumento era il luogo di incontro della popolazione maschile di Biassa. Vi erano due osterie ma la mancanza di quattrini costringeva i più a rimanere seduti sulla lunga panchina di arenaria a ridosso del muraglione della soprastante canonica: i vecchi con il mento sulla curva del bastone che tenevano tra le mani masticavano pezzi di toscano che rigiravano nella bocca e sputavano infine ai loro piedi in larghe chiazze marroni sulle lastre di arenaria.

I giovani all’altra estremità della panchina accanto al portone, verde e sempre chiuso, della piccola tenuta parrocchiale intorno alla canonica, si passavano di bocca in bocca una sigaretta “alfa” (la più economica) acquistata “sfusa” dal Luise il tabacchino, che la incartava nella carta di giornale.

I giovani, a turno, la fumavano sino all’ultima tirata, magari infilando la cicca in uno spillo per non bruciarsi le dita.

Nel 1951 questi giovani, esasperati dalla lunga inattività dovuta alla mancanza di lavoro, gridarono infine la loro protesta e iniziarono quello che sino dal primo momento fu chiamato“sciopero alla rovescia”. Non era uno sciopero proclamato da una categoria operaia, incrociando le braccia: erano i disoccupati che scioglievano le braccia incrociate per la mancanza di lavoro e le armavano di pala e di piccone per lavorare e creare qualche cosa di utile senza essere remunerati.

Rendere la strada transitabile ai mezzi pesanti era essenziale per la collettività; ebbene, lo “sciopero” dei disoccupati sarebbe servito almeno a soddisfare questo bisogno!

Quaranta giovani di Biassa senza lavoro, con pale e picconi, iniziarono a “correggere” le prime curve dopo Pegazzano, in località “Polletta” le quali, pericolose al transito, furono deviate e rese transitabili.

La protesta ebbe inizio il 1º gennaio 1951 e il fatto fece scalpore. Erano i tempi delle lotte operaie della Termomeccanica, dell’OTO Melara, del Muggiano, delle discriminazioni in Arsenale e questo movimento suscitò subito simpatia negli ambienti sindacali e nei partiti di sinistra tanto che la Camera del Lavoro “prestò” loro il geometra Guiducci che, anche se non poteva comparire come addetto, forniva il sostegno tecnico con consigli e direttive.

La gente di Biassa si autotassò per dare un minimo di sostentamento a questi giovani. Fu creato addirittura un Comitato con tanto di presidente (Guido Bertano), di cassiere (Mireno Cidale), di segretario (don Alfonso Ricciardi) e il responsabile dei giovani partecipanti alla protesta era Celio Natale. Questo comitato provvedeva alla raccolta di fondi che poi divideva tra gli “scioperanti” in base alle ore lavorate. Alla domenica erano organizzate feste da ballo il cui ricavato contribuiva, assieme ad altri finanziamenti elargiti dalle Cooperative di Consumo di Biassa, a finanziare quella singolare forma di protesta. E “sciopero” singolare doveva veramente essere, se al suo successo contribuirono pure i “padroni” delle cave lungo la strada di Biassa con soldi o materiale di cui i giovani potessero avere bisogno.

La forma di protesta così organizzata andò avanti per tre mesi sino a quando l’amministrazione comunale, con sindaco Varese Antoni, convertì il lavoro volontario svolto da questi giovani in un cantiere scuola che era una specie dell’attuale “lavoro socialmente utile” affidato ai giovani disoccupati.

Il cantiere scuola durò altri sei mesi ed alla fine la strada da Pegazzano sino alle Fornaci fu resa transitabile, anche se poi si dovette attendere il 1953 per ottenere che il primo mezzo pubblico arrivasse fino a “casa Cuffini”. Certamente però lo “sciopero alla rovescia” fu determinante perché questo avvenisse.

Solo il 27 luglio 1957 la corriera arriverà finalmente a Biassa e ciò per la testardaggine di un amministratore comunale, Mario Ragozzini, che impose a recalcitranti funzionari del Comune di trovare la soluzione per fare arrivare la corriera fino al paese.

 

 

 

’R canau di fuestri (Il canale dei foresti)

 

Uno dei canali di Biassa incomincia nel Curezöu e attraversando da un lato il Bale e dall’altro lo Scoiu, arriva nel Pradu dove un tempo erano efficienti alcuni mulini, per poi immettersi nel vallone che forma il canale di Biassa prima di raggiungere Pegazzano.

Un tratto di questo canale, nei pressi dell’attuale Piazza del Monumento, si chiama “canau di fuestri”.

Nelle vicinanze vi erano alcune osterie e un prato erboso che fu in seguito, con la costruzione del muraglione di contenimento che affianca la sottostante strada, trasformato in un piazzale che nel 1928 prese il nome di Piazza del Monumento dopo la costruzione, nella parte centrale, del monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, opera di Felice Del Santo. Era inevitabile che le abbondanti bevute del vino di Tramonti in quelle osterie, degenerassero sovente in liti e che i malcapitati forestieri avessero la peggio nei confronti dei più numerosi e rissosi biassei.

Si dice che spesso, questi incauti forestieri finissero nel vicino canale, ma non sembra sia questa la principale ragione del toponimo.

Si racconta che durante il traforo della galleria ferroviaria denominata Biassa che partendo da Pegazzano e attraversando tutto il territorio di Biassa sbuca a Riomaggiore, molti furono i minatori e gli operai venuti da fuori per la sua costruzione. Alcuni cantieri di questa imponente opera erano nelle vicinanze di Biassa essendo numerosi i fronti di scavo: ai due fronti di arrivo e di partenza della galleria, se ne erano aggiunti altri intermedi nei punti dove erano previsti gli sfiatatoi che dovevano essere tre, ma ne furono realizzati soltanto due perché di uno fu sbagliata la direzione con il risultato di renderlo inutilizzabile.

Parte delle maestranze erano alloggiate a Biassa o in baracche nei dintorni, per cui erano in contatto con gli abitanti tanto che alcuni di essi si sposarono con donne del paese.

Erano i primi degli anni 1870 e gli scalpellini di Biassa con la recente costruzione dell’Arsenale si erano fatti una fama di maestri in quel mestiere e la loro opera era richiesta anche fuori Biassa, addirittura all’estero. Molti di loro, dopo la vendemmia, partivano lontano per il lavoro di scalpellini e ritornavano alcuni mesi dopo per rimettersi a lavorare la vigna, mentre altri rimanevano in paese, occupati nelle numerose cave locali.

Alcune donne si lamentarono, con i loro uomini appena rientrati, di atti e parole irriguardose nei loro confronti da parte dei forestieri che lavoravano per la ferrovia e i biassei che mal sopportavano la presenza di questi estranei, decisero di dar loro una lezione.

Per festeggiare il loro ritorno a Biassa organizzarono un pranzo a base di stoccafisso in una casa in località san Rocco a cui invitarono anche i minatori forestieri che volentieri accettarono.

Le antiche abitazioni di Biassa erano costruite generalmente con stanze una sopra all’altra, collegate con ripide scale di legno che permettevano di salire ai piani superiori e la cucina era situata all’ultimo piano. In questo modo il fumo del focolare, che era senza cappa, usciva dalle connessure delle ciape (ardesie) che ricoprivano il tetto.

Mentre all’ultimo piano il gruppo di biassei attorno al fuoco festeggiavano con lo stoccafisso e il vino bianco di Tramonti assieme agli ignari invitati, un altro gruppo di giovani del paese toglievano, senza farsene accorgere da questi ultimi ma d’accordo con i biassei dell’ultimo piano, la scala di legno che saliva al primo piano.

Ad un segnale convenuto, improvvisamente, i biassei che erano in cima, impugnati a mo di bastone gli stoccafissi che precedentemente avevano nascosto per questo scopo, incominciarono a menare, sui poveri malcapitati, colpi di stoccafisso che, presi per la coda, erano divenuti armi pericolose.

Vista la malparata, i “fuestri” tentarono la fuga, ma giunti al primo piano, non essendosi accorti della mancanza della scala e incalzati dagli altri, precipitarono al pianterreno, dove erano pronti i complici biassei che prendendo per i piedi gli storditi e malmessi partecipanti alla “festa”, li trascinarono giù per la lunga scalinata di via dell’Ospedale sino al terrapieno che in seguito diventerà la Piazza del Monumento e li gettarono nell’attiguo canale: il “canau di fuestri”, appunto.

 

 

 

La Netina

 

Era una donna piccola piccola. Aveva una bella voce. Anche in età avanzata cantava brani di romanze mentre filava la lana dalla “ruca” di canna passandola tra le dita e avvolgendola al “füsu”, un rocchetto affusolato che manteneva continuamente in rotazione con rapidi colpi delle dita ad una estremità.

Era tanto minuta che la chiamavano Netina, diminutivo di Anna. Era nata nel 1882.

I genitori la costrinsero a sposare un uomo più anziano di lei di venticinque anni, vedovo e padre di due figli più vecchi di lei, ma che era considerato un buon partito perché a Tramonti possedeva buoni appezzamenti di vigneto.

Buona parte dell’anno (eravamo agli inizi del secolo) i biassei la passavano a Tramonti ad occuparsi dei lavori nei loro vigneti che erano anche la loro principale risorsa.

In quei periodi abitavano in case più o meno grandi, ma costruite tutte con la stessa tecnica: addossate all’acclivio del terreno con il piano terra adibito a cantina ed il piano superiore formato per metà di battuto di terra e l’altra metà posta sopra la cantina, costituito da un solaio di tavole dove era sistemato un pagliericcio per dormire.

In un angolo del pavimento di terra battuta vi era il fusiau (focolare) fatto con pietre scalpellinate, visto che i biassei erano valenti scalpellini, senza cappa e canna fumaria per cui il fumo usciva delle sconnessioni formate tra le ardesie che coprivano il tetto. I muri non erano intonacati e succedeva che il fumo passasse da una casa all’altra, essendo questo tipo di abitazioni sistemate a schiera, una a fianco dell’altra. Questi muri erano neri di fuliggine, lucidi.

In una di queste case, a Schiara, abitava per buona parte dell’anno la Netina (detta di Ciarlèu) assieme al marito Gio Batta (detto Paiàzzu). Era il 1912 e la Netina era incinta. Non era certamente, quella, una condizione per avere privilegi: la donna incinta continuava a lavorare nei campi nelle occupazioni di pertinenza delle donne, e cioè: “netezàe”, pulire dalle erbacee e foglie secche il campo per renderlo pronto a zappare, prerogativa degli uomini; “ligae”, legare a nudo le vigne con le ginestre ai paletti dopo averli piantati nella terra lavorata, “caàe”, legare le vigne non ancora in germoglio adagiate a terra ad una specie di reticolo fatto con lunghe pertiche per sfruttare al massimo il calore emanato dalla terra che faceva maturare precocemente i grappoli destinati alla vendita come uva da tavola. Quando le vigne erano in germoglio avanzato, si legavano ai paletti infissi nella terra. Per ultimo si doveva “sfuiae”, togliere cioè le foglie vicino ai grappoli di uva per farli meglio maturare dal calore del sole.

A Tramonti non si trovavano dottori o ostetriche: all’occorrenza bisognava arrangiarsi.

Un giorno che la Netina era nei campi del Güzerné, proprio sopra la roccia della Gaiàda, dove l’uva imprigiona il sole fino a diventare dorata, sentì le prime doglie. Arrivata a casa fu aiutata dalle vicine a partorire. Erano due gemelli e nacquero tutti e due morti.

Volle ugualmente dar loro un nome: Anselmo e Aurelio.

 

 

 

Picùlu

 

Con la costruzione dell’Arsenale Militare e dei forti intorno alla città ebbero impulso i mestieri di scalpellino e cavatore.

In queste due attività eccelsero i contadini di Tramonti che cominciarono a sfruttare numerose cave sul territorio (di Biassa e Tramonti).

Ben presto la pietra arenaria non ebbe più misteri per loro: una volta individuato il “filo e il contro” del filone, incidevano delle tasche nella pietra dove infilavano a forza dei cunei di leccio stagionato. Il cuneo veniva bagnato di tanto in tanto in modo che aumentando di volume dividesse l’arenaria.

Più spesso però i cunei erano di ferro ed erano mantenuti in tensione con la mazza sino a dividere il blocco.

Queste grosse fette di pietra venivano successivamente tagliate con piccoli cunei di ferro. A quel punto interveniva lo scalpellino che, secondo l’utilizzo, ricavava il pezzo voluto: lastre per pavimentazioni stradali, copertine per muri, cordoli per mulattiere, gradini, stipiti, soglie, parti decorative. Oppure pezzi più grandi come basamenti, banchine, ecc.

L’arenaria di Biassa e di Tramonti fa parte della formazione geologica denominata “macigno della Spezia” che comprende anche le Cinque Terre; è una pietra serena, di colore azzurro chiaro e di grana fine, considerata la migliore di tutto il “macigno”.

Migliaia e migliaia di metri cubi di questa arenaria furono utilizzati per la costruzione dell’Arsenale tra cui i poderosi conci dei bacini.

Gli scalpellini furono grandi maestri nell’adoperare punta e mazzuolo, basti pensare alle colonne della chiesa di S. Martino nuovo, al monumento a Vittorio Emanuele a Genova o ai muri della chiesa di Nostra Signora della Neve alla Spezia.

Alcuni scalpellini emigrarono e portarono la loro opera a Marsiglia e Algeri.

Molte delle pavimentazioni delle strade della Spezia (ad esempio via del Prione che fu lastricata con tacchi ricavati nelle cave di Monte Verrugoli e Bramapane nel 1823-24), Carrara, Genova, Milano, Nizza, Marsiglia e addirittura Buenos-Aires sono state lastricate con pietre provenienti dalle cave di Biassa.

La famiglia dei Bertano (Bertan) di Biassa era proprietaria di molte cave, in cui lavoravano a giornata o a cottimo i contadini di Biassa e Tramonti. Il territorio era attraversato da molte strade carraie che dalla via principale raggiungevano le cave. Per queste, con i carri trainati dai buoi, muli e cavalli si potevano trasportare pezzi lavorati di una certa consistenza.

A Tramonti, invece le cave avevano un’altra caratterizzazione e vi si ricavavano pietre lavorate di piccola dimensione.

Tutta la costa era disseminata di cave, per lo più a conduzione famigliare; il proprietario di un terreno, individuato un masso di arenaria, lo spaccava e vi ricavava piccole pezzature che poi vendeva in proprio.

Allora anche le donne partivano da quelle piccole cave col pezzo di pietra sulla testa e a piedi raggiungevano il cantiere di costruzione alla Spezia.

Vi erano invece alcune cave nelle vicinanze del mare come quella sopra l’Aenèu (l’Arenello), fra Schiara e Navone, e quella delle Cà Vècie (Case Vecchie) a Monesteroli. In questo caso, col mare calmo, approdavano barche a vela (leudi, latine, bilancelle, ecc) provenienti da Genova o dalla Spezia che venivano caricate con la pietra trasportata a spalla camminando sui “trasti”, o tavole, che dalla scogliera raggiungevano la barca.

Una di queste cave coltivate in riva al mare si trovava in fondo alla spiaggia dei Cantun, sotto la “cà de Vèli” (casa di Carro Attilio). Il proprietario si chiamava Antonio Gianardi ma era soprannominato “Picùlu”. Era un benestante di Biassa che oltre alla cava, possedeva molti appezzamenti di terreno, uno dei quali vicino alla cava, nel luogo chiamato Cantunèu che confinava con il mare.

Proprio in mezzo alla spiaggia (detta dei Cantun), sotto il Cantunèu, si trova un lastrone di arenaria, levigato dal frangersi dei marosi. Ai tempi di Picùlu (si era alla fine dell’800) il mare era più arretrato di oggi, tanto che su quel lastrone di roccia c’era la casa dove saltuariamente questi abitava, stretto com’era tra i doveri della cava, dei vigneti e delle terre di Biassa. Viveva con lui, in quella casetta, un operaio che lo aiutava ad estrarre e scalpellinare l’arenaria.

Per quanto riguardava il cibo non c’erano grossi problemi perché il mare era ricco di làvue (patelle), arnotui (lumache di mare) e musculi (cozze) ed ogni tanto qualche polpo che incautamente si avvicinava agli scogli.

Di acqua dolce ce n’era in abbondanza perché poco lontano, di fronte alla Roca da Gaiada (Scoglio Ferale) nel luogo detto dello Scau Vèciu (Scalo Vecchio) c’era una sorgente dove l’acqua anche se un po’ salmastra era pur sempre fresca e ottima. Anzi, a quei tempi era tanto abbondante che le donne di Schiara quando scendevano a fare il bagno, ne profittavano per lavare i loro panni che poi, stesi su quelle rocce levigate dal mare asciugavano, e non rimaneva nemmeno una grinza. Dunque l’acqua dolce c’era, il vino non mancava ed era dei migliori: Picùlu non aveva che da salire qualche campo più in sù nella sua proprietà dove aveva un’altra casetta nella quale produceva il vino per il fabbisogno suo e del suo aiutante.

Però mancava il pane. E se a Tramonti (specialmente al mare) manca il pane, manca tutto. Per cui ogni tanto lui o il suo aiutante “saliva il monte” e scendeva a Biassa dalla moglie di Picùlu che nel forno di casa preparava il pane per la famiglia e per il marito che era nei Cantun.

Un giorno, Picùlu incaricò Ciclina (soprannome dato al suo aiutante cavatore di origine toscana) di andare a prendere il pane a Biassa dalla moglie.

La buona donna aveva preparato tre bei pani ancora fragranti di forno e Ciclina li legò nel mandilu de fiu (fazzoletto di tela), come si usava allora e prese la via del ritorno.

Arrivò tardi che faceva notte, nella casa sulla spiaggia dei Cantoni dove Picùlu lo stava aspettando con un certo appetito e sfamarsi.

Va detto che Piculu era uomo di chiesa ma molto superstizioso. Buon uomo, ma molto credulone. Lui non sarebbe mai transitato, di notte, per la strada che da Biassa porta a Tramonti, specialmente nel tratto dàa posa (dalla posa), davanti alla pietra detta del Diavolo, anche se sulla sua sommità era stata infissa una croce di ferro, messa apposta per fare scappare le presenze maligne.

Dunque Ciclina, arrivò in casa con un’aria spaventata, tutto trafelato come se avesse corso inseguito dai briganti.

In mano aveva il grosso fazzoletto nero, vuoto. Appena potè rispondere alle domande che gli faceva Picùlu, oramai spaventato pure lui, gli rispose che mentre tranquillamente se ne veniva a Schiara con il pane in mano, sentì qualcuno che lo apostrofava ma lui non vedeva nessuno. Terrorizzato dalla paura sentì quella voce che gli diceva:« So che hai con te il pane da portare a Picùlu ma io ti dico una cosa: questo pane a Picùlu non deve andare: o lo mangi tu o lo mangio io! »

«E piuttosto che farlo mangiare a quello spirito che nemmeno vedevo, me lo sono mangiato io!»

Tremava il poveretto temendo che il padrone giustamente non lo avesse creduto. Invece Picùlu, fattosi il segno della croce e dopo avere biascicato qualche parola di preghiera, gli rispose:

«Hai fatto bene, Ciclina, hai fatto bene...»

 

 

 

Il Re buono

 

Era un giorno d’autunno del 1890.

Gio Batta Natale era nella sua cantina nei pressi della Croce di Schiara. Questa cantina era situata in una posizione anomala rispetto alle altre cantine di Tramonti: isolata e ad una quota di 500 metri sul livello del mare mentre le altre si attestavano ad una altezza variante tra i 200 e i 300 metri.

Poco lontano la radura della posa e del menhir: di lì transitava la gente per recarsi a Schiara e Monesteroli e al ritorno lì si fermava, alla posa, per antica abitudine. Gli avi di Natale, sebbene la vicina radura fosse stata esorcizzata ponendo una croce alla sommità di quella strana pietra, avevano scolpito sugli stipiti di arenaria della porta della cantina, altre croci che avrebbero contribuito a tenere lontano dalla casa il demonio.

Era una grigia giornata d’autunno e una burrasca proprio sopra il mare aperto, che visto da lassù sembrava piombo fuso, lanciava i suoi strali.

All’improvviso Gio Batta sentì delle voci che chiedevano ospitalità.

Affacciatosi vide gente con fucili e cani: certamente signori a caccia che si erano imbattuti nel fortunale.

Entrati in casa, davanti al camino acceso, Natale offrì quel poco che aveva da mangiare e del vino di Rebui.

La caccia a quel tempo era passatempo dei ricchi; ai poveri restava il bracconaggio e Natale vedendo quei bei fucili e i ricchi vestiti dei cacciatori, portò il discorso sulla caccia.

Teneva discorso con lui un uomo alto di statura, ossequiato dai compagni di caccia come uno di rango superiore, il quale vista la calda accoglienza offerta da quel contadino e il suo appassionato interesse per la caccia, si fece dare da un suo accompagnatore carta e penna e scrisse alcune righe su quel foglio. Prese poi il fucile che aveva posato in un angolo della cantina e l’occorrente al funzionamento dell’arma e li consegnò allo stupito contadino assieme al foglio su cui aveva scritto poco prima.

Va detto a questo punto che la famiglia genovese dei Doria era proprietaria, e lo è tutt’ora, di buona parte dei boschi intorno a Biassa e che in località Pìlua (Pillora), sul monte Santa Croce, possedeva una grande costruzione, nota come “Castello Doria”.

Vista l’abbondanza di cacciagione, i signori di Casa Doria, erano soliti invitare a partite di caccia nobili e maggiorenti del recente Regno d’Italia.

I poveri di allora invece oltre a non poter andare a caccia, spesso non potevano nemmeno andare a scuola. Gio Batta era uno di questi per cui non potè leggere quello che quel distinto cacciatore aveva scritto sul foglio.

Quando a Biassa raccontò l’accaduto e si fece leggere quello che era scritto, rimase stupefatto. Era scritto: «Io sottoscritto Umberto Iº Re d’Italia, concedo al signor Gio Batta Natale la possibilità di cacciare oggi e domani. Firmato Sua Maestà Umberto Iº Re d’Italia.»

Forte fu l’emozione per aver dato ospitalità al re e ai Doria ma temette l’inganno nel constatare di poter andare a caccia soltanto «oggi e domani».

Qualcuno gli fece però notare l’arguzia del “re buono” (che veramente buono era stato nei suoi confronti), nel non datare il documento. In questo caso era sempre oggi e sempre domani!

 

 

 

Pio Nono

 

Il 20 giugno 1892 un colpo di fucile caricato con polvere da sparo e bave di punta da scalpellino metteva fine alla ancor giovane età di Antonio Rossi di 43 anni, meglio conosciuto col soprannome di Pio Nono.

Il Rossi era un ex consigliere di Biassa che si era molto dato da fare per il suo paese, specialmente nel far costruire dal Comune, seguendo i vecchi e impervi sentieri, le scalinate in arenaria per La Spezia e per Tramonti.

Era uscito dal Consiglio Comunale nell’ottobre del ’90 quando dissidi interni alla giunta portarono allo scioglimento del Consiglio ed alla nomina di un Commissario.

Nella sua canzonetta per il carnevale del 1891 intitolata “O scioglimento der Consegio”, il Mazzini lo descrive bonariamente come uomo molto legato alla chiesa:

 

“De Pio IX a ne diò gnente,

poo diao! i è restà lì

come en semo, e i ha fato voto

d’andae en geze tuti i dì.

 

I ha scoverto a sé madona

che l’è quela do rosaio,

i fa ’n triduo e die de messe

tute contro ’r comissaio”.

 

Quel lunedì mattina verso le 7, il Rossi, nel suo calesse, scendeva da Biassa per raggiungere La Spezia quando arrivato poco sopra Pegazzano in località Polletta (nome di una sorgente lì vicino) un colpo di fucile lo faceva sbalzare dal suo mezzo sulla strada, morto. L’autopsia riscontrerà ben venti ferite sul corpo, procurategli da un unico colpo di fucile sparato dalla distanza di venti metri, secondo la ricostruzione fatta dai carabinieri.

Fu all’epoca un fatto molto importante tanto che su sollecitazione della famiglia Doria, di cui Rossi era fiduciario, fu inviato sul posto per le indagini un colonnello dei carabinieri di Chiavari.

Tutti gli uomini attivi di Biassa, circa trecento, furono arrestati, legati a gruppi di dieci, sorvegliati dai carabinieri e portati alla Spezia dove furono sistemati in più scuole in attesa di essere interrogati.

Di questi ne vennero trattenuti una ventina tra cui il consigliere comunale Cidale e lo zio di Rossi, don Giovanbattista Carro ex prete di Biassa, che furono trasferiti alle carceri di Sarzana.

Alcune persone che si trovavano nei terreni nei pressi dello sfiatatoio della sottostante galleria ferroviaria, abbastanza vicina al luogo del delitto, descrissero l’uomo che aveva sparato e che con il fucile in mano videro addentrarsi nel bosco «con un cappello moscio e di color bigio in capo, con un gran fazzoletto che gli copriva la faccia...»

Di nemici, Pio Nono, ne aveva molti a Biassa. Era un’epoca, quella, dove dominavano le fazioni e viva era la rivalità tra persona e persona: «Nelle città si combattono con l’arme della polemica, del giornalismo e dell’onore; nelle borgate invece, dove la vita civile è embrionale, si combattono ben spesso con l’arma del sicario, che ferisce alle spalle e si nasconde nell’ignoto», ebbe a scrivere un anonimo giornalista commentando l’assassinio di Rossi.

Rossi sapeva di avere nemici tanto da portare sempre con se il revolver e la sera non rientrava mai in casa dopo l’avemaria. La notte precedente l’agguato, ignoti si fermarono sotto le finestre di Pio Nono cantando il Miserere e, pronunciando parole di morte, lanciarono pietre contro le finestre rompendo tutti i vetri. Al mattino furono trovati coltelli piantati nella porta di ingresso.

Due anni prima, nel 1890, mentre il parroco don Carro officiava la messa nella ricorrenza di S. Martino, fu affrontato sull’altare e gli fu portata via la reliquia del santo. Sembra che gli autori del fatto fossero membri della società segreta “Stella d’Italia” che da allora fu chiamata Mano Nera. Don Carro e Pio Nono erano membri dell’altra società: quella dei “Paolotti”.

Sino alla morte di Pio Nono non mancarono motivi di contrasto tra le due fazioni; agli affiliati alla Mano Nera fu interdetto l’ingresso in chiesa e numerose furono le liti che scoppiarono tra di loro.

Negli ultimi tempi però anche gli stessi aderenti alla Società dei Paolotti si divisero in due gruppi a causa di dissapori tra i due principali soggetti: Pio Nono e don Carro.

È probabile che questo loro contrasto fosse dovuto a interessi personali, visto che erano strettamente legati da parentela, ma pare vi fossero altri motivi di attrito.

Una giovane donna, Adelaide Pietrobono, detta Barbutina era rimasta vedova il 2 febbraio 1886 del marito ventottenne, maestro elementare, anzi “pubblico insegnante” come è scritto sulla sua lapide, che di chiamava Giovanni Battista Canese Mariotti. Lei aveva appena ventinove anni ed era madre di due figli. Perseguitata dalla sfortuna, dopo appena tre anni dalla morte del marito perderà la figlia Maddalena, morta all’età di sette anni e dopo altri sette mesi vedrà morire il figlio Emilietto di dodici anni.

Divenne a quel tempo amante di don Carro con grande scandalo dei benpensanti della Società dei Paolotti, ligi alle regole di san Vincenzo de’ Paoli, improntate ad una ferrea osservanza religiosa. Questi incaricarono il Rossi di dissuadere lo zio prete dal suo atteggiamento, vista anche la grande influenza che Pio Nono aveva nel paese.

Don Carro non si diede per vinto e continuò a frequentare la giovane vedova, per cui Pio Nono adoperò le sue conoscenze per fare mandare lo zio come cappellano sull’isola Palmaria. Un esilio che non piaceva a don Carro anche perché oltre a non potersi incontrare con la Barbutina, non poteva nemmeno accudire ai numerosi possedimenti a Biassa e Tramonti.

È stato tramandato, con sussurri vista l’indole del vecchio biasseo, che lo zio gliela giurò brutta, al nipote. Profittando dell’odio tra le fazioni, don Carro si accordò con loro per l'eliminazione del nipote dietro la congrua somma di lire 1.500.

Nella sede della Società, a san Rocco, si riunirono tutti gli affiliati per tirare a sorte a chi toccasse uccidere. Il designato, col cappello floscio e il fazzoletto sulla faccia, aspettò Pio Nono al suo destino sulla strada di Biassa in località Polletta, dove è tutt’ora un cippo in sua memoria.

 

 

 

Lindu e Dumè

 

Era una persona strana ma che sapeva farsi volere bene per le sue stravaganze. A Biassa era conosciuto da tutti con il nome di Lindu o Rulu, altrove con il soprannome di “er Biassa” anche se in realtà si chiamava Natale Martino.

Libero come l’aria non apparteneva a nessun schema: viveva alla giornata di piccoli lavori nei campi sia a Biassa che altrove, dove si trovava in quel momento.

Una vita considerata “anormale” dalla gente comune ma da lui vissuta alla grande, senza complessi e con una filosofia che spesso lasciava perplessa la gente cosiddetta normale.

Quando era a Biassa abitava in una vecchia casa, nella parte alta del paese in località Deghiun, sulla Costa.

Negli ultimi anni, alcuni parenti gli avevano rifatto a nuovo la vecchia casa, con un caminetto in un angolo della stanza, arredandola con qualche mobile e un letto.

Non dormì mai su quel letto, talmente era abituato a dormire per terra come non utilizzò mai il caminetto perché gli sembrava un lusso superfluo e preferiva accendere un focherello da una parte sul pavimento.

Aveva sempre nelle tasche di una vecchia giacca una testa d’aglio e un tozzo di pane che, diceva, era il suo cibo preferito. A sentire lui, quel cibo lo preservava da ogni malattia e doveva essere vero visto che non era mai stato ammalato sebbene vivesse la maggior parte delle notti all’adiaccio sotto qualche pianta ai giardini pubblici o in qualche stalla in uno dei paesi dello spezzino quando si trovava in “trasferta”, perché trovava piccolo il paese di Biassa.

Soltanto se gli mancavano i soldi occorrenti al suo genere di vita si prestava volentieri per lavori occasionali, eseguendo coscienziosamente questa incombenza.

Quando ritornava dall’osteria, dove generalmente alzava il gomito, salendo verso casa, bofonchiando e gesticolando, agitava con la mano la bottiglia piena di vino portata fin lassù per finire discretamente la sbornia in casa.

Spesso raccontava storie fantastiche di areoplani da guerra in picchiata che sparavano raffiche di mitraglia sui nemici, eseguendo suoni con la bocca e mimiche divertenti. Oppure narrava del suo immenso potere in grado di fare sparire il sole o far piovere con un semplice gesto della mano.

Uomo di età indefinibile era benvoluto da tutti per la sua bonarietà che manteneva anche quando aveva bevuto qualche bicchiere di troppo.

Un giorno si sentì male e fu trasportato all’ospedale da dove non ritornò più.

Altro personaggio e contemporaneo di Lindu fu Dumè, al secolo Cidale Domenico.

Era un ometto piccolo, male vestito e con lo sguardo buono ma rassegnato.

“A ne g’arivu”, (non ci arrivo) era solito ripetere, quasi a significare che non era colpa sua se le sue condizioni erano quelle di un sempliciotto.

Spesso lo si vedeva con un piccolo fascio di legna; rami secchi raccolti nel bosco, tanto per sentirsi utile a qualche cosa.

I suoi atteggiamenti erano quasi sempre di paura: ad una voce che lo apostrofava scherzosamente alterata rispondeva alzando le mani quasi a ripararsi dai colpi e il suo volto esprimeva paura.

 

 

 

I soprannomi biassei

 

I biassei, gente abituata alla fatica, alla solitudine voluta ed accettata da tutti come un qualche cosa di inscindibile dal loro carattere; gente riottosa e isolata da tutte le vicinìe da cui si accettava soltanto il vino “dolce” o “rinforzato” (mai sciachetrà) e “l’oro di Biassa” (l’uva da tavola).

Gente attaccabrighe, irascibile, violenta: gli ultimi liguri genuini, non contaminati da apporti esterni; anarcoidi: i gabellieri finivano nel “canau di fuestri”. Erano rimasti colpiti dagli ideali della rivoluzione francese tanto che vestivano come i rivoluzionari col rosso berretto frigio di lana che scendeva loro sulle spalle e con la larga fascia di panno nero per cintura.

Questa razza indomita manifestò strenuamente la sua avversione al fascismo tanto che Biassa è stato l’ultimo paese della provincia ad essere occupato dalle Camice nere.

Biassei dagli strani soprannomi e dai cognomi che dimostrano lo scarso inserimento di gente esterna.

Ed è per tributare un omaggio alla memoria di questi ultimi liberi abitanti di questo angolo di Liguria, che li ricordiamo con i loro soprannomi.

 

 

Bertani                           Chiara                    Russa

                                      Gio Batta               Cacota

                                      Maria                     Bicoca

                                      Attilio                    Meneghin

                                      Attilio                    Lampin

                                      Attilio                    Maculé

                                      Attilio                    Santin

                                      Attilio                    Trin

                                      Attilio                    Tini

                                      Domenico              Vagliò

                                      Domenico              Bertan

                                      Domenico              Baciò

                                      Domenico              Minotu

                                      Antonio                 Baraba

                                      Enrica                   Bertana

                                      Ettore                   Colustortu

                                      Emilia                    Vuante

                                      Francesco             Renega

                                      Giovanni                Furmageta

                                      Giovanni                Paüa

                                      Gio Batta               Picetu

                                      Gio Batta               Russu

                                      Gio Batta               Trunbun

                                      Gio Batta               Zenaotu

                                      Luciano                 Francia

                                      Maria                     Giaca

                                      Marco                    Seena

                                      Salvatore               Bertu

 

Bertano                          Armida                   Dimare

                                      Adriano                 Napa

                                      Adriano                 Grigò

                                      Antonio                 Gigiu

                                      Guido                     Spezia

                                      Caterina                 Taì

 

Bonati                            Piramo                    Purpu

 

Bellavigna                      Gio Batta               Vice Voce

 

Bianchini                        Umberto                Agnelùn

 

Casavecchia                  Giovanni                Gianbè

                                      Giovanni                Pizò

                                      Giovanna               Braica

                                      Giacomo                Gio

                                      Gio Batta               Gunin

                                      Gio Batta               Nicò

                                      Francesco             Ciürin

 

Carro                              Antonio                 Barchetta

                                      Attilio                    Vèli

                                      Attilio                    Tilò

                                      Battista                  Didon

                                      Costantino            Petale

                                      Candido                 Testabela

                                      Domenico              Cèu

                                      Domenico              Menegu

                                      Emilio                     Giampéu

                                      Emilio                     Loca

                                      Emilio                     Bèpa

                                      Ernesto                  Gianduia

                                      Francesco             Luisòtu

                                      Francesco             Ciaèla

                                      Francesco             Matu

                                      Fernando               Nicò

                                      Gio Batta               Rossè

                                      Gio Batta               Tugnazu

                                      Gio Batta               Mutroneu

                                      Gio Batta               Bacin

                                      Gio Batta               Menò

                                      Gio Batta               Bagneta

                                      Giorgia                   Zorza

                                      Guiglio                   Michelin

                                      Iginio                     Menò

                                      Iolanda                  Titina

                                      Luigi                       Luise

                                      Marcello                Babu

                                      Mario                     Rociu

                                      Maddalena            Maden

                                      Renato                   Tabaciu

                                      Virgilio                   Tola

                                      Francesco             Büfin

                                      Francesca              Faciuna

                                      Francesco             Scagazza

                                      Maria                     Baionèla

                                      Pietro                     Peschea

                                      Ernesto                  Gianduia

                                      Domenica              Mutronèla

                                      Assunta                Muda

                                      Gerolama               Gnanpepina

 

Carrodano                     Caterina                 Gatu

                                      Armando               Risèculi

                                      Domenica              Maiaza

                                      Domenico              Gobu

                                      Emilia                     Basadone

                                      Gian Maria            Gianmaroni

                                      Gio Batta               Mezalana

                                      Gio Batta               Ghè

                                      Gian Maria            Magnan

                                      Gian Maria            Laìa

                                      Giuseppe               Brincia

                                      Giuseppe               Fualàte

                                      Guglielmo              Pierino

                                      Mario                     Bisèu

                                      Mario                     Cicèu

                                      Mario                     Ligaena

                                      Mario                     Peota

                                      Nando                    Tataole

                                      Olimpio                  Ragnu

                                      Olimpio                  Buruna

                                      Orlando                 Lintana

                                      Rinaldo                  Barèla

                                      Stelio                      Poèta

                                      Chiara                    Ciaeta

 

Cidale                            Adolfo                   Franzese

                                      Alberto                  Bertin

                                      Bartolomeo           Pentin

                                      Bono                      Lisandru

                                      Costantino            Fiorina

                                      Carolina                 Magru

                                      Ezio                        Patelin

                                      Erminia                   Vanpara

                                      Elio                         Petina

                                      Ettore                     Pistaci

                                      Everaldo                Vessa

                                      Francesco             Feraùn

                                      Francesco             Gàia

                                      Francesco             Pincò

                                      Francesco             Buìna

                                      Francesco             Minin

                                      Francesco             Pentin

                                      Ferdinando           Frezò

                                      Giuseppe               Mütu

                                      Gio Batta               Cagù

                                      Gio Batta               Batì

                                      Gio Batta               Cudèia

                                      Gio Batta               Pustin

                                      Gio Batta               Lümin

                                      Gio Batta               Naé

                                      Gio Batta               Giacheta

                                      Gio Batta               Patelin

                                      Guglielmo              Capitanu

                                      Giannino                Pizasegu

                                      Gerolama               Giunfrin

                                      Giannino                Punpiere

                                      Linda                      Magra

                                      Luciano                 Fifina

                                      Lina                        Füela

                                      Maddalena            Biseta

                                      Marcello                Bulacu

                                      Marco                    Pelati

                                      Gio Batta               Rabì

                                      Natale                    Felice

                                      Odilio                     Muzàu

                                      Oreste                    Gigina

                                      Paolo                      Tugneta

                                      Torquato               Biceru

                                      Umberto                Bertelu

                                      Chiara                    Bertu

 

Callegari                        Mario                     Peche

                                      Francesco             Chechinetu

                                      Gaspare                 Lasagnin

 

Canese                          Antonio                 Cabanèla

                                      Gio Batta               Giani

 

Carmè                            Francesco             Rana

 

Cicci                                Enrichetta              Ansana

 

Dauscio                          Luciano                 Menzogna

                                      Renato                   Peu

 

D’Imporzano                  Luigi                       Bigin

 

Donna                            Angelo                  Besiu

                                      Nella                       Zendéèla

 

Fresco                            Flavio                     Simun

 

Gianardi                         Antonio                 Mucini

                                      Antonio                 Tripun

                                      Antonio                 Piculu

                                      Antonio                 Talian

                                      Attilio                    Fuscu

                                      Biagio                    Baièla

                                      Federico                Gabèli

                                      Ernesto                  Gabeleti

                                      Enrico                    Aprilochiu

                                      Ettore                     Già

                                      Enrico                    Brichetin

                                      Enrico                    Ghigna

                                      Domenico              Rumela

                                      Francesco             Stagnin

                                      Francesco             Prete

                                      Francesco             Ciloni

                                      Francesco             Marganciuna

                                      Gaspare                 Fasëu

                                      Giulia                      Mùchera

                                      Gerolama               Taliana

                                      Guerrino                Guèra

                                      Gio Batta               Lanpin

                                      Gio Batta               Bagun

                                      Gio Batta               Zon

                                      Gio Batta               Baièu

                                      Gio Batta               Bacineu

                                      Gio Batta               Stagninetu

                                      Ideale                     Segheti

                                      Mario                     Figheta

                                      Oreste                    Cugun

                                      Virginia                  Vergiò

                                      Valentino               Valé

                                      Caterina                 Perdea

                                      Biagio                    Pilun

                                      Domenica              Pacina

                                      Domenico              Bisu

                                      Maria                     Baluna moglie del Gurguìn

                                      Caterina                 Paina

 

Lombardi                       Maddalena            Maciocu

                                      Maria                     der Mortu

                                      Maria                     Pisaneta

                                      Maria                     Levànta

                                      Maria                     Miòtu

                                      Gaspare                 Marchinèu

                                      Oreste                    Pietrò

                                      Gio Batta               Crovàa

                                      Domenico              Biasin der Merlu

                                      Giovanni                Tostu

                                      Gerolama               Ciuèla

                                      Gerolamo               Buntempu

                                      Francesco             Balanèu

                                      Annibale               Ciola

                                      Alvisio                   Melin

                                      Attilio                    Barila

                                      Biagio                    Zigain

                                      Domenico              Zigaia

                                      Domenico              Pudenzana

                                      Emilio                     Maché

                                      Emilio                     Caghin

                                      Emilio                     Bravu

                                      Caterina                 Pisana

                                      Francesco              Diulèu

                                      Francesco              Carlin

                                      Francesco              Pegazan

                                      Francesco              Zigarè

                                      Gino                       Renega

                                      Giovanni                Salana

                                      Guglielmo              Gula

                                      Filiberto                 Züpaza

                                      Luigi                       Mancuèu

                                      Emilia                     Rìciola

                                      Marco                    Médegu

                                      Mario                     Barilotu

                                      Mario                     Barüfa

                                      Domenico              Zigàia

                                      Salvatore               Mori

 

Lombardo                      Battista                  Bisin

                                      Alba                       Pinè

                                      Carlo                      Madelu

                                      Elvisio                    Ingurdu

                                      Eugenio                 Mascagoga

                                      Emilia                     Mimuna

                                      Emilio                     Toni

                                      Emilio                     Cuciuìn

                                      Ettore                     Fanetu

                                      Francesco             Zigaìna

                                      Gino                       Biseta

                                      Luigi                       Baguna

                                      Gio Batta               Bucacia

                                      Gio Batta               Begalu

                                      Mario                     Ganassa

                                      Maria                     Stignuna

                                      Maria                     Zopu

                                      Margherita            Muntagnàa

                                      Narciso                  Deluna

 

Maggiani                        Mario                     Cua

                                      Emanuele               Giani

 

Mariotti                          Gio Batta               Lalu

                                      Gio Batta               Testa

                                      Gio Batta               Tàvia

                                      Francesco             Zendein

                                      Erminio                  Buàru

                                      Maria                     Zendeina

                                      Maria                     Negreta

                                      Maria                     Picoca

 

Mele                               Bianca                    Becaza

 

Natale                            Anna                      Netina

                                      Antonio                 Pietin

                                      Agostino               Trei Nasi

                                      Giulio                     Giüla

                                      Andrea                  Rumanetu

                                      Adriano                 Telèfunu

                                      Marco                    Barbeta

                                      Enrico                    Romanu

                                      Ettore                     Brizun

                                      Martino                 Bonatu

                                      Erminio                  Lüstrin

                                      Francesco             Madelò

                                      Francesca              Chechina

                                      Gino                       Beighë

                                      Giuseppe               Pinetu

                                      Giulio                     Punia

                                      Giulio                     Testun

                                      Giulio                     Giülin

                                      Giulio                     Ciupina

                                      Gio Batta               Menegazu

                                      Gio Batta               Muscuin

                                      Gio Batta               Paiazu

                                      Gio Batta               Paiazèu

                                      Gio Batta               Pigatu

                                      Gio Batta               Scafaèu

                                      Gio Batta               Veceta

                                      Gio Batta               Furcelin

                                      Gio Batta               Bisutun der Pau

                                      Gio Batta               Zurzeta

                                      Mirko                     Burberu

                                      Mario                     Capea

                                      Nando                    Tëru

                                      Nando                    Zidentau

                                      Francesco             Ciarlèu

                                      Pietro                     Natalin

                                      Romolo                  Baguna

                                      Domenico              Deghe Deghe

                                      Maddalena            Peschea

                                      Bianchina              Machìna

                                      Caterina                 Magia

                                      Maddalena            Beleàna

 

Rossi                             Emilio                     Riguletu

                                      Ernesto                  Lain

                                      Ernesto                  Gabiola

                                      Elide                       Tran Tran

                                      Antonio                 Pio Nono

                                      Antonio                 Susena

                                      Antonio                 Figu secu

 

Riccono                          Linda                      Zate

 

Sommovigo                    Agostino               Betinotu

                                      Agostino               Pendignolu

                                      Agostino               Nen

                                      Caterina               Campanina

                                      Caterina               Santantonia

                                      Emilia                    Mòu

                                      Francesco             Picheta

                                      Francesco             Bacicia

                                      Gilda                     Pégua

                                      Gio Batta              Campana

                                      Gio Batta              Baciòla

                                      Gio Batta              Fügazau

                                      Domenico             Badèu

                                      Domenica             Dentina

 

 

Scaglione                       Agostino               Gusetu

                                      Giovanni                Salan

                                      Giorgio                   Miuì

 

Sassarini                        Francesco             Cicheti

                                      Elio                        Sc-ciopeta

 

Tedesco                         Gio Batta               Laun

                                      Gio Batta               Prussiàn

                                      Gaspare                 Piciarèlu

 

 

Oggigiorno si è persa la necessità di attribuire soprannomi, ma un tempo, essendo frequenti le omonimie all’interno della stessa famiglia, come ben si è potuto notare scorrendo l’elenco dei nomi sopraelencati, erano necessari, per poter distinguere l’uno dall’altro.

I nomi propri erano ripetitivi per il fatto che al primo figlio veniva imposto il nome del padre ed alla prima figlia quello della madre. Però anche per i figli successivi la rosa dei nomi era molto limitata per cui, visto anche il numero esiguo dei cognomi, erano numerosi i casi di omonimia anche al di fuori delle famiglie. Di qui l’esigenza di attribuire i soprannomi, parte dei quali derivano però dalla trasformazione dei nomi propri di persona. Altri addirittura dai soprannomi dei genitori. Ad esempio, il figlio di Paiàzzu si chiamerà Paiazzèu; quello di Bacin, Bacinèu, ecc.

Talvolta non potendo risalire al nome dell’originario detentore del soprannome è stato usato quello di un suo discendente.

L’elenco dei nomi sopra riportati sono in stragrande maggioranza angraficamente riconducibili ad un periodo di una trentina di anni dall’inizio del secolo.

È altresì interessante esaminare la trasformazione di alcuni dei nomi propri di persona:

Alessandro: Lissàndru, Lissò.

Angelo: Angiulìn, Angiulè

Antonio: Tognu, Tugnin, Tugnazzu.

Domenico: Menegu, Meneghin, Menegazzu, Duménegu, Dumè.

Emilio: Mìliu, Milò.

Francesco: Checu, Chechin, Francé, Franzeschìn.

Gerolamo: Giömu.

Gio Batta: Batì, Batistu, Baciò.

Giovanni: Zanin, Giuvan, Giuvanin, Zane, Zuvane, Giani.

Giulio: Giülin, Giüla.

Gregorio: Grigò, Grigulin.

Luigi: Gigiu, Luise, Luisotu.

Adele: Dela, Delina,Deluna.

Assunta: Sunta, Suntina.

Chiara: Ciaéta, Ciaetìna.

Francesca: Checa, Chechina.

Gerolama: Giùmina, Giùmò.

Maddalena: Maden, Madeinin, Madelò.

Maria: Maìa, Maiò, Maiùna, Maiulìna.

Marta: Martuina.

 

 

Dal fotografo

 

Mettersi in posa davanti al fotografo non era cosa da poco.

Soli o in gruppo era pur sempre un rito collettivo, scandito da gesti di un vero cerimoniale.

Andare dal fotografo era come salire su un palcoscenico, era un po’ come mettersi davanti al mondo.

La fotografia è un verbale visivo, la conferma di un evento e la sua consacrazione.

Ecco perché in queste fotografie c’è l’espessione d’una dignità umana che non viene scalfita dalla convenzione della messa in posa.

La fotografia porta con se l’idea di archivio. Al di là di dare un nome alle persone, dell’identificazione d’una tecnica, dello stile del fotografo, della datazione ecc., prezioso materiale di studio, le informazioni che una fotografia puo contenere sono infinite.

La lettura di questi preziosi documenti ci rivela il costume del tempo, le mode del momento, la messa in immagine di un gruppo o delle singole persone, l’arredamento dello studio, lo sfondo pittorico e scenografico, come se queste immagini, opportunamente interrogate, ci parlassero delle microstorie delle donne e degli uomini che compongono il grande affresco della nostra comunità. La memoria colletiva ha dei luoghi in cui si forma, sta a noi proteggerli e consegnarli al domani, mettendo l’accento non sul “come eravamo” ma sul cosa siamo stati capaci di fare.

L’energia-memoria serve a questo.

Biassa è un esempio.

 

Sergio Fregoso, primavera 1999.


angelo