Durer Melancolia

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Con quell’antica idea nuova il tempo incluso nella meteora sfiorò la terra. La china posa di una meditazione profonda librò il viso in aura di contemplazione. Il mio viso. Quanta memoria futura in quel tornare lento alle cose. Allo spazio contratto dal correre dietro al tram per arrivare o per tornare in una sorta di mezzodisastro, mi trovai quel giorno un addio per sempre. Distante alla discriminante dell’illibato ausilio e del più corrotto contrario, avvicinai ogni possibile pensiero al retrosenso ; l’allegra corsa del mezzo,  a guisa di una rachidea, disarmante dolcezza, fermò e trasse con se l’incanto di un’alba dorata. Ancora, su tale suolo nel più semplice ritorto eccedere, accade che un raggio-sorriso trattenga le mani della fine. La mia fine. Qualcosa d’incerto, amabilmente incerto mi prese, riprese, comprese con se. E svolò all’improvviso. Continuai a camminare. Una ruota, il moto dell’anima, accelerazioni nel vuoto. Assurdo e assurdamente assoluto quel vuoto ritorno , dolce adagio di un rapido disagio. La casa come una montagna incantò ancora i miei occhi; disparve ogni altro monte luccicante a rettangoli. E triangoli di attonite parole accolsero le membra dissipate da ritmi di frastornate occasioni ad agavi di silenzio in rivoli di labbra antiche. Non sapevano quei segni del mio sogno così nuovo; una mano nel fazzoletto, l’altra tra i capelli, le dita annodate a riccioli, biancoperla ed unghie turchine come coriandoli adagiati finalmente, nella calma di vento. Ritrovarmi morto. Adagiarmi con lei. Un corpo e un corpo: il dono della vita nel calore che ora ridono e ripetermi il soave pregare che insegnò. Ora. Contro un soffitto di mondo. Qui tra lembi celesti e spire di gemiti innaccolti. Riposando. Respirando il cuore fermo. Sapevano i sogni del divenire?  Ora e qui, qui ed ora.

Dove mima la morte ed imito la morte.

Amò così tanto, ora lo sento. Visse così a lungo i pochi momenti belli, ed ora lo sento. Addolcì le pene  di occhi mai stupefatti in orazioni e sottrazioni di pensiero, quasi fosse pensare impazzire. E l’impazzire della vita un inutile pensiero. Le mani dall’abbraccio delle dita unite, il sospiro vibrante di un immobile giacere, sipari d’impossibile luce tra pieghe di cristallo e pelle. Il mio bacio muto e l’aria tremula come la riva di un lago grande come l’occhio bagnato da tanto lacrimare. Soffi come nebbia che stupisce  e si leva fumando lo già stordire dei sensi, sopendo il mirare d’ogni altro pensare, lenta come  tenebra, acuta come l’oblio che accompagnò questo accanto corpo, un tempo mia culla. Ed ora. Nacqui, e mi ritrovai nato in quell’accanto corpo. Il mio primo parlare era tutt’uno con i suoi sogni.  La terra capovolta per i miei primi passi. E cominciai  a cadere quando imparai a camminare. E mille volte ricaddi in ogni parlare. Quasi fosse la vita senza fine, e la morte di ogni altra persona. Rimasi a chinare il lato avverso, rotolando all’opposto. L’auspicio che di un buon consiglio annoia, non avvenne. Il peso progressivo del mio vivere nutrito, e del perdurare addebitato non conservò comunque orma alcuna. E l’allungarsi dell’ombra non conciliò il ritorno maturo alla natura dell’origine. Tempo addietro all’immaginario improduttivo e tempo addietro rinvenuto tutt’uno con tal attimo. Disperato. Artificio la disperazione che assale il cielo come un lume di candela e divampa nel fiore di u secondo; disperato il singulto che segue all’urlo, urlo inaudito che affiora alle labbra e spegne prima di essere udito. Sapore di mercurio, lo specchio di un pianto che non può addolcire, di un ritorno che non puoi avere. Mai più in questa vita. Eterno Ritorno. Mai più, ti disse, baciando la prima volta la fronte, intenerendo il grido di fame con carezze alle tempie, alla nuca. All’improvviso lo spettrò sollevò da me. E pensai di vedere il suo corpo, ed accanto il mio, come sagome bianche sopra una sfera di terra. Il luccicare di stelle nel buio di caleidoscopio, ed in fondo, a frammenti, il decantare del nostro giacere ricomponeva nuove forme. Pensai di sussurare al prisma di togliersi di mezzo; e rivelare finalmente il nostro destino. Quando il pensiero sollevò il velo, smarii la maschera. Apparve un viso. O almeno pensai ad un viso Gli occhi, ancora ricordavo l’esistenza degli occhi suggerirono che quella cosa doveva essere un viso. Immaginai le labbra. E la pelle celeste, guance che ricordavano ali d’angelo; tutto questo come la ninfea in acqua cristallina.  Ed ancora all’improvviso, come un vorace buio, le labbra s’aprirono; dileguò il viso degli occhi, pensai di ritrovarmi al buio come ‘prima’ al chiudersi delle palpebre. Gocce cellulari percorrere la galassia del mio invisibile, ed unirsi in rosario, e d’incanto svanire nel vapore di un fantasma di luce. Ora, nel calore come nel sole, pensai di contemplare tutto questo. Corpi adagiati, piegati e fusi in alterno movimento. Urla inseguite da ombre di silenzio. Gemiti corpi in crisalide, circondati da un bozzolo di buio. Nacqui fiammifero per una notte così grande. Presto, improvviso e tardo. E nel rimestio del ricomporsi al riposo, tinto dal piacere infranto dal mio dividermi, cominciai a sentire. Sentire il moto del mio nascere libero. Ricordai il segno dell’anima e di un’altra vita. Le sterminate inseguite a correre accanto, al ritrovarmi come spazio concentrico mai cerchio.

 

E le lacrime, come gocce di mercurio, come lacrime di bambino per tutta la vita ad unirsi in un mare di argento vivo. Vita a corsa. Vita da disfare, come dimenticare quel che esala da me sin dall’inizio.  Un pianto, un mughetto e borotalco tra mille sfoglie di pelle. Un nasino a puntini, gli occhi che come giorni volano via, e c’è la virgola dei piedini, e ci sono i giorni di un canto che fa l’abbandono e la misura del mondo, la nennia del dolce sonno. Sotto il velo, il mio cielo, la panna di luce del giorno fa il viso di un viso il viso. Stravederti, mamma, ad aiutare un muto, che nasce silente verbo e grida. Urla. Fame e clado. E sotto le dita scorrono brividi e lacrime. Tu, ed io, e c’è la vita; e tu, ed io non sappiamo che sia. Pur nostra, è rivolta a noi la vita; nel silenzio i tratti di un ossessione ed il battere del cuore. Siamo distratti l’un dall’altro, e papà che vuole. Amore di bimbo, amore di mamma, sembra niente. Ma per noi era tutto. Il massimo di un fragile sottile filo tra le camere. Una fune al maglio di un porto per una sagola da niente che coabitava la mente di un camallo. Piccola via, siamo lacrime! e piange per noi, e sotto il cielo il cielo. Amore mio, aurora d’oltremare, aria che aiuta, levita e pane caldo che la boccetta a piccole labbra rosa, seppero baciare e scomparire. Mentre occhi erano dolci e un pochino di tristezza, perchè poi non volli non mangiare, ma volli rifiutare. Ancora il cielo sotto il cielo, ‘e suvvia siamo uomini’, conta la conta, un esercito di uomini. I morti non contano morti. Piccolo mio, farti come un angelo che raccoglie elemosina, farti carne che rifiuta il sangue. Un pò di fumo solleverà la tua cenere, e la solerzia di un fischiettante arrivo spegnerà nella polvere nuova polvere. Piano, piano la velocità del mio crescere velava ogni certo dubbio, e crescevo come una matita accorcia dopo tanto scrivere. Il dispetto di esserci, come una scatolina a lembi stretti. Chiusa pronta ad aprirsi. Piccole mani come lunghe labbra dal più puro sorriso. Nasce un addormentarsi, e c’è il perdersi. Anima mia, ora ti cambio il pannolino. Che vestitino ti metto, ed un ruggito, come tigre, come agghiacciante simmetria, emisi, e mise il vestitino. Scivolando giù dalla nube, la pellicina sul ghiaccio di un sorriso di papà, inebriante è il volare e niente più. Prudente il papà, un orsetto di papà, gli occhi, i suoi occhi. Ed ora, ancora la mamma, mi metto a letto con la mamma; un attimo e chinai sotto il cielo il mio viso. Sono senza, all’incanto dormire...ora metto il vestitino, ora...quell’incendio, coro d’abeti, e lo svolo di rondinelle, mentre passa, e chi passa se non papà: arriva, scoprendomi, e la mamma senza occhi per per cercare coll’udito il suo arrivo.

Ora mi sveglio e ti cerco. Mi spingo a te per sapere che ci sei. Ora sei perchè  tocco i tuoi pensieri. I tuoi pensieri... e passeranno tanti anni, quasi fosse per sempre, perchè capissi, e comprendessi il tuo volare. Amore mio, aiuta il pellegrino da tante fuggite! Aiuta il pellegrino che non sa che via...aiuta il ritorno a ritornare per sempre, ed il centro del cuore ad eccedere...un segno dona e donagli. All’amore mio un gesto che sia un trionfo di petali viola, un arcobaleno, una scintilla di mille colori. Libra  sopra il corpo, che qualcosa di lui ora porto; libera la mia innocenza su di lui come una carezza di mare ed il vento delle pinete. Spire di piume e talco vellutato colorano la sua anima dal tuo respiro...amore mio, fammi sognare ed inchiodare all’amore di loro che s’amarono per farmi nascere.All’improvviso, ascoltai la voce come fosse una voce, udii finalmente quel che fame mi faceva urlare. Un richiamo vicino nel lontano pertugio del buio. Nacqui come fossi già uomo, ed ero bimbo incantato ed incatenato alle orde di passaggi senza ritorno. Aiutami, come la chiusa dell’acqua aiuta l’acqua. Giorni senza giorni, e la chiosa della vita  e nell’emergere nasce dal fondo e nel buio ricompare senza luce, svanendo dopo un giorno di luce.Cara vita, che non sai perdermi senza togliermi da te. Piccola avventura che di buono puoi avere tutto, ed offendi il tuo nulla. Piccola e soave inimicizia col destino e l’avverso passato ora sai, nell’accogliermi, sfrondare al sogno mesto. Arte di vivere illumina il riemergere, d’ombra muta il fumo solerte del capire all’ento cadere delle corolle. Aggredirmi si confà a te, consumarmi come luna in me, e rammendare la pelle sbucciata  a te, ed aiutare il viandante scivolando sul viso come notte sempre a te....

 Cara vita...... in attimo presagio divenne prodigo; e perle di pelle in colline di giochi e del mistero, che, arrotolando pergamene di tempo, ne dai ancora l’incanto, mescesti il liquor all’umore: l’improvviso avvenne, come se nulla fosse. Nulla, disse la mano alla carezza ed al brivido. Nulla, piccolo bimbo, in una trave pesata sul mistero dei nostri corpi, nella casa dagli occhi d’aquila e l’ali di fuoco; il vento balenò nelle lame di cristallo., e la mamma, grande come il mondo, dal manto dei fiori alla cenere dei fiori. Nulla disse la mano al piccolo bimbo. Ed un bimbo incontrava d’allora la nebbia calda: dall’abbraccio il cuore  piombò, scavando ogni palpito nella nebbia. ‘Papà!’ Nube, sotterfugio di viso a lacrime ed ardore di scavare, trovare un corpo, ed altro ancora...piccola e cara vita, un corpo ancora vivo...e continuava il vento straziando respiro e celle impazzite. ‘Papà, dov’è mamma?’ Tornava dalle abetaie del mare con i nidi delle stelle. Tornava in quel tutto finito. Ripeteva il tonfo nell’immane inspiro, ed il grido, sino all’esausto gemito della mamma, un rumore compresso tra cuore ed udito. Ancora, d’anelito capisco il viso, il naso, la carica bocca, labbro, ciglia, zigomi d’argento, rughe.  ‘Ossido’, qui non si respira che ammonio. Ossido in un rovo di carbonio e idrogeno, atomi oligarchici di un tempo. Azzimo il colore del cielo che non solleva lo spettro della nostra filigrana.  Papà se n’è andato. Trovai la foglia del suo corpo annidata nella piega della nube nera. Posi la frenesia dell’ultimo dolore accanto a lui.Più tardi sperai la morte. La cercai prima come amante, poi la pregai come sorella.  All’improvviso, in corteo di noebi assolate, ascoltai...ed accolsi l’abbraccio vertiginoso.

 

Rullio, barcollo, pressione da ogni parte, affondo e respiro impossibile. Luce. Carica implovisa, ritmo al palpito, flusso e voragine. Turbine. Mattoni e connessioni, cono rapido, tondo pensiero. Cerchio. Mai. Rima. Gioco. Numero.Una parete stretta, striata, corrugata e dal becco della fuga...eccomi! Frammento friabile tra mani di vetro. Gocce, e poi la gola di un vaso d’acqua; la polvere della convessità e l’affronto della gravità.  Mi stizzo alla nuova curva che devo affrontare. Finalmente avvallo nel grembo, affondo il grugno tra le mammelle. Qualcosa di piacevole m’accoglie: un sorriso traverso ad onde di dolore, l’odore pieno d’aromi inebrianti unge il mio corpo.  Corpo. Di nuovo.Copro la sollecitudine con un vago richiamo. Ho fame. Schiuso all’ordine più vicino alla perfezione antica, di nuovo ho fame. Imprigiono le dita al palmo, chino la genuflessione all’ordine estremo, chiudo l’occhio ed apro le labbra. Succhio vibrato e tremula il seno.

Agguancia incoronata e tra loro gli occhi cominciano a parlare....... E ricominceremo da capo, mamma.

Ad amarci. Imparerai ad amarmi questo piccolo fastidio, in un canto di Gospel; piccolo luogo e cassapanca di grida notturne.Ramo bianco tra conserte labbra. Ho da dirti, mamma, che ci sono.

Ho un cuore nuovo ed un’anima stanca.

Stanco il tuo cuore, come si deve, ed il vapore del mio respiro, le lacrime dei tuoi occhi s’incontrano di tanto in tanto. Un luccichio ed il tremito del nostro amore. Che corre a noi è un mare d’amore.

Ed inonda il chinare del nostro viso, l’un e l’altro a fianco, incollati come due vetri alla patina dell’alito alitarmi per scaldare... e baciarmi. Ricominceremo, ed ora stiamo iniziando.

Quel che le stelle liberarono e poi le mani raccontarono con le dita. A fianco sentire l’anulare e il medio, ed il mignolo incontrare l’indice e fuggire come da un bacio improvviso. E m’apristi librerie di parole.

In arte millesimo di tenerezza s’apesti ed apristi il tuo petto come ali impazzite.Capelli e soffi, carezze ed occhi, innestarmi come ciliegio ed amaro sortilegio. Sussurro e fuoco e mitezza che quel giorno attraversammo come la cera della candela alla fiamma. Sciolti peregrini a procedere percorsi canti e rumori e melodie dell’anima. Ora che all’adire abbiamo preso ogni indugio ed alla perversione della dolcezza il magico espiro.Dimmi e toccami colle tue parole. Parlami con i tuoi silenzi e le tue parole straziate e le vecchie stropicciate delle maglie che posi sopra il tuo corpo.

 

Quanta materia circonda il mio midollo...

Profondo come il buio. E basta appena un pò d’abbaglio attorno allo spiraglio, e l’abisso confeziona in noi l’angoscia dell’infinito mistero.  Midollo ed anima.

Archivio e xenofobia per la vita.Esistere al contrario d’ogni cosa.Ed ogni cosa scoprire ed esistere nell’intermittenza fastidiosa.Ora è, ora è morta. Vivere come accelerazioni e singulti dell’essere, spegnersi lentamente.Impazzire nello stordimento di sibili ed atriti tra cose indecise. Risanire come l’arcobaleno prima del tramonto.Tutt’uno coll’immortale silenzio del nulla. Tutt’uno colla grazia inaspettata di un sorriso divino. Arricchirsi dell’Armonia nel distacco. Cogliendo in meno della vita, e tutt’uno colla vita, l’anima senza posizione ed impulso. Dispersione e simmetria. L’improvviso svelarsi.

Arimo! Gridai ai bimbi che vollero toccare la luce che spegne. Ed urlai alle gambe ed ai pugni che salutari, allora sembravano, coprivano il mio corpo di risa. E pio venne il Riso non colse mai.  E poi venne la mia giacca, il mio sorriso spavaldo. E la mia goccia. Incravattato ed imbellito per l’occasione, tanto grande allora, un soprabito e la pioggia di me s’impolverò e rientrai dall’illusione alla vita di Tutto il Giorno: e le guance adagiate, lasciate ad archiviare sorrisi in rughe amare. I bimbi tornarono a strillare di giorno, e la notte ad amare il loro urlo. I bimbi tornavano con tutta la dolcezza possibile.

Avevo capito sin dall’inizio, ed ira ed ora avevan seppellito il mio capire.  Or, come un deciso accorto riempivo l’aria e l’anima di solvenze incompiute. Tradivo l’atmosfera di ammoniache reminescenze. E la nebbia, la nebbia del mio pianeta, scendeva ad attutire rombi disperati ed armonie sfuggite. Ed al tropico del mio ombelico la rinuncia fu tale, il grido fu tale...che lasciarmi inoperoso sull’altalena parve agli dei un ingiusto, obliquo pensare.

Ora sento i tuoi pensieri.

Un’afflizione che stringe il collo.

Un attimo inspiegato tra creature di spiegazione.

Ora sento il tuo problema come fosse mio. E la buccia della tua pelle sta nel piatto della mela.Attrezzato come dovessi discenderti nel cuore, mi inabisso nello smistamento del tuo pensare. Accorato discendo cascando, rimbalzando.

 

Ora sento il ritorno ad ascese continue.

Ed affermo l’interezza dei tuoi discorsi. Mi hai fatto ed hai parlato. Come un cielo sommerso da nubi, il cielo assolato mi hai donato.  Ora rimango qui.

Un giorno sprizzai. E nacque luce.

 Ero al mare. Un incanto di giorno. Calda luce sul mio corpo. Appena fatto il bagno, lo sdraio ed il sole.  L’adagiarsi ancor bagnato al sole, mentre a crisantemi ornava la tomba rimasta inoperosa.

 

Certi incontri di occhi si fanno per aprire nuove circostanze ai sogni di sempre. E venne sbriciolando le sue lentiggini sulla ferita del mio innamoramento. Vedevo nelle sue mani qualcosa che mi avrebbe toccato. Ancor meglio di prima. La presi tra una buccia d’arancia e il marcepiede. Non avevo capito.

 

Riprendo da capo.Esperimentai la bellezza di una donna, da capo a piedi, improvvisamente. Sempre nello stesso corpo. Pochi mesi dopo, un velo. La luce, ancora una volta,  fu così disinvolta.

 

E’ luce tutto ciò che provi. E provare non basta. Ad un tratto accorto il momento cade, e segue angoscia. Privato stordire nel rimare quel che sei. Ad un tratto t’accorgi che non c’è più, e resta al buio il tuo sguardo. Soffitti e vibrati sospiri. Un seno, e manca l’altro. Dimenticato dalla mano. Dimenticate labbra. Palpebranti occhi che cercano i punti e le sollecitazioni profonde. Rassicura il caldo e tormenta il sibilo oneroso del futuro. Senza. Ravvede il sussurro, il gemito dolce, il termine disperato del piacere. Ancora una volta nasce un uomo.

E tra le labbra marmorine sfugge il fremito di una nuova accoglienza. E solo sta l’abbraccio di costellate morti, ed ancora solo il chinare lento del guanciale al corpo che accompagna per sempre lo scivolio. Vissi , tremando dissi.

Senza conoscere accanto che stava succedendo. E stava succedendo qualcosa di grande. Un’altra vita. Prima della mia. Dopo tutto. Ancora . E fronde di gustose foglie nella sua eterna primavera. Occhi. Manine e gomitoli di baci.

L’incanto fu pronto. E lento, sfidante il gelo di un corteo faldava e sorrideva il canale, accompagnandomi al tramite ultimo. Prima d’allora, il vento ha cr esciuto i capelli

sul mio viso, e la spiaggia della mia fronte inalberato velieri di sabbia. Prima, come fosse un pianto in equilibrio colla gioia, ho  barcollato sul filo, ho soccorso il mio vestire al corpo ed infreddolito.  E cialde si sorrisi, mille abbracci felici. L’allegria imprigionata, finalmente un canto urlato, prima cullato come un bimbo, poi celato all’ombra di luna, e finalmente liberato al silenzio dei sogni. Ora.Qui. Dal mio cuore che scioglie, e nutre la terra, al senso ultimo di tutte le cose.  Un canto pellegrino che imprigionò ogni verbo al gerundio dell’istante. Custode tra due tombe, libranti ali nell’invisibile motore del tempo.  Un canto prigioniero che pellegrinò tra sentinelle e distratti, tra sataniche volpi e allupati agnelli. E trascorre il sonno e piove che solo la domanda di un senso. Sbatte la luce al viso. Portato e gridato senza fine. Come un soffio diventato vento. E venni a me, come tardi giunge la memoria dei sospiri. Come l’infanzia nei ricordi, un piacere trovarsi spericolando tra improvviso e finalmente.  Attese ed addii. Camminando, disfando il ritmo in accelerati mutamenti.

 

Crescendo non rinacqui più.

Il ciclo apparve l’incanto delle continuità.

Correre tra fodere di tempo come la spada slamata dal grano; e biondo celare il cuore nell’impulso di correre, accorrere sperduto e sparendo il senso a spighe di vento. Ora siamo al ditirambo del corifeo.

 

Quarto provvedere. Stacco e riattacco il pulviscolo argentino alle fessure. Dismetto devozioni e l’astinenza al perdono per un peccato inatteso.  Ogni più latttescente crescere assorbe virtù; e la conocenza dissolve.  Calarmi nelle tue librerie di parole: assolvere ogni dubbio coll’immane pentimento di aver voluto sapere.Quarto sapere. Fuoco e ascensione. Morte dopo la passione. Resurrezione.Racconto a falangi. Quadrati e calvari.A cena per la mia morte. Ancora un racconto futuro. E nella china volta del mio golgota una croce all’ingiù. E dopo il pianto di amaro sangue, allontanarmi con il calice, al taglio della spada  tagliata dall’inferto colpo al destino. Noi non possiamo. Volere. Ardire dello stare soltanto stare. E l’ardire configurazione senza amare.

 

E soffia la carezza senza carezza.E soffia la bimba il cenere ricciolo.  Ora. Qui? Annausea il vedere che.il sentire come qualcuno che sta freddo al freddo. La fame stanca di fame. Il bisogno, che tormenta di amore, nella tormenta. Non vedo, non ascolto, non vorrei pensare... Non parlo. Muto l’orgasmo e cresco. Rimprovero il gioco. Ascendo e salgo per discendere. Salgo, arrotondo la china, e scivolo. Cascando, rimbalzando. Ora. Qui. Vaso attorniato di fiori. Vaso spengo. Luce diffamo. E stordendo, accresco.

 

Piccolo straniero in triste vago ameno corpo. Ora scendi ai tuoi piedi, e preghi. Ora mi converti il sonno, del riposo ad ardimento e pianto. Chiedo scusa a Te, mio Signore.

Chiedo scusa a Te, che ho osato credere raggiungibile...

Eppure guardare gli occhi di una madre è come fare la Comunione. Ora riprendo a viaggiare...e curva il viso del bimbo che dorme alle conserte braccia della mamma.Chiedo a Te scusa, Popolo Eletto.Hai viaggiato stringendo il corpo, aspettando manna, assembiando improvvisate e profezie, confondendo asperità con rapide dolcezze. Voltarti indietro ti fu caro, volger sguardo a stelle, a congiunzioni di pianeti impossibile. Impossibile l’attesa Del -già-Venuto. Notte, ancora notte. Millenni d’elezione argomentata in struggenti sterzate, quasi a scivolar via, e viaggiare... Ancora viaggiare. C’è un sonno, il tuo, chiamalo, e veglia la vigilia, l’unica osata in osanna di consacrate peripezie al sibilo, al fischio atteso che spande al di là dell’uomo-porta. Sonno di membra coperte. Ed alle stive di topi sotituisci il delirio. Che di ogni profondità la parola è nata, che la mia somma arroganza investe colori ed arcobaleni per altro mondo. Per altro sentire.

 

Quinto. Cinque atomi. La via chimica dell’anima. Essere. Esistere. Stare a tempo. Ritmo scaturigeno di verità inconsistente. Ente. Deprivarmi dei ritorni inauditi qui tra gli attesi. Cinque le forme a scompormi, ed agitarmi in saturazioni allegerite. Ogni impossibilità allungarsi all’ombra del cammino tra lampioni di soli, negli scheletrati sagittari. Trovarmi tra stagioni d’irraccolte speranze, ed ardere d’amore come stellato cielo senza coscienza. Trovami ungherese col rosso fiato di un cosacco, assiso al quadrato, un scacco pazzo alla regina. E pazzo il limpido di fluidità aromatica sopra i pezzi e scomposti depositi del mio corpo.  Reami d’agitati liutai, e vibranti cuori, colonne di fuoco ed esangui cristalli di luce colano, trasudano da petti in scoppio ed onde d’urto di mare. Amare, le saline argentine scolorano le squame e laniere dalle mani filano il pianto delle arcnidi. Mannisco l’irta filanda in pastosi respiri di profumo. Canto. Lieve e gracile, appena l’udito s’accorga del limo che posa. E dal filare di punti l’alveare sprema il miele, e dagli esagoni l’ape riposi alle carezze ed i baci delle mie labbra.

 

Al tuo dolore il male dolce ha spento ogni ritorno. E piccolo come una grave moneta il dramma sale al Cielo, ed agli occhi che aspettano le attese virate ad altre onde, e spumeggianti sommergono. Sommergono e spengono prima ancora fiore il nostro fiore.  Aprimi al paradiso le porte, attingi dal bussare e dal bussare senza pazienza la frenesia di questo starci nel senno e nell’amore.Quanto l’innaturale stare ti rende amena e parca musa. Quanto l’acqua grondante dagli occhi fanno i vederti improvvisi. Spenta, quasi non avessi più seno, ancora abbracci e scivoli al destino madido, sopreso come l’amante in amore; a straziarmi la miniera delle idee un vulcano di lava e pensieri impietriti dal freddo lontano dal sole. Superarti pagina offerta alle divinità immaginate...Superarmi dal tempo imprevisto. Come un lampo di sirena azzurra, investire il bisogno d’aiuto e sfigurare con la barba bianca e la slitta dagli antichi cervi. Sprigiona me, e spezza la solitudine con armonia a nozze. Saetta con amaro tempio in colonne attese, ed alle atmosfere irretite frangi e spezza il pane Dilaga come torrente in fiume, e fiume a  mare in oceani d’amore. Sconfinato ‘stronauta canta...che siamo noi gli uomini viaggianti, commisurati, compatiti e condivisi. Il perchè stiamo e divisi e insieme scarsamente argomenta il semiologo, e l’apparire di un treno al livello di un passaggio sul mare testimonia la nostra estrema indecisione. Nella Eucarestia.

 

Torbido il mio fango. Attornio l’infangare del dissennato essistere con figure straziate.  Assistenze e supporto per pergolati derisi, perchè straniti.  Noi che l’attimo abbiamo attimo attinto e decolorando la dolce chimera del nostro divenire a tutt’uno, abbiamo perchè voluto avere. Ed a quell’affetto che toccati ne sentiamo l’orma sin ad ora, improntiamo il bacio e la sagoma del nostro abbraccio.

 

Un gioco. La lenta memoria magnetica attrae forma e ridiventa paura. Un gioco il timore della regola astrusa e l’immagine sottile che non passa la cruna, eppure la pupilla avvolge. Come fuoco. Come nebbia. E scavalcando impetuosi rami, la tenera fronda rammenda stelle d’azzurro cielo ai bagliori di ostinate luminescenze. Come da lontano, trastullando lo sguardo dalla noia, un campanile circonda l’archivio dei ricordi in melodiche libagioni di luce, così approssima la tenace integrazione della dissoluta disperata speranza. Un gioco. Maledetto tra chiedermi ed aiutarmi. Mentre vortice assimila la stabilità’ di paese deformato da chine e colline, un alto centro frammenta i confini a bordi e tagli. Come infiuma la gente nella benedizione e sconsacra il bacino l’accoglienza inoperosa del lasciar fare. Ed è gente le labbra che parlano.  Ascolto accolto dentro se come una fitta.

E dolente assaporare il greto dal ruvido scoglio trafitto dalle onde. Che dire di un caldo sole, e l’acqua bagnata dal pianto di occhi stesi al sole? Tragittami come un marinaio all’insano ricovero.

 

Faccio la fatica di una vela solitaria. Dimmi, mio Signore, che l’arte che rimane da inventare nelle tue parole c’è...Dimmi  una sola vocale...spietato sei stato, come il ritorno di un prodigo figlio mi hai accolto lungo la via. E prima di ancora vedermi, le quattro sostanze confusero la quinta della vita.  Acciocchè la lama ferisca il mio sudario, e le vesti in grembo ad una madre accolgano un nuovo cuore, un nuovo pianto.° Ed è nuovo il pianto della verità.

 


angelo